Come tutte le istituzioni umane che durano nel tempo, anche i Giochi Olimpici hanno un’ascendenza mitologica e un’aura di sacralità. Questa regola cosmica, purtroppo oramai quasi misconosciuta, rende ragione della permanente attualità di questi particolari giochi da almeno tremila anni.
Il gioco
Ma prima di arrivare ad esplorare le origini mitologiche delle Olimpiadi, fermiamoci un momento a riflettere sul concetto di “gioco”, dato che da questo necessariamente dobbiamo partire.
Lo spirito di gioco è essenziale alla cultura, ci dice Roger Caillois. I giochi ed i giocattoli, nel corso della storia, sono effettivamente residui culturali e spesso anche cultuali, come nel caso delle Olimpiadi, sopravvivenze oramai incomprese di una condizione superata o elementi presi a prestito da una cultura estranea e che si trovano espropriati del loro significato all’interno di quella in cui sono introdotti. Spesso secolarizzati, come nel caso dei Giochi Olimpici moderni, hanno perso in apparenza il loro scopo originario, quello di celebrare la morte degli eroi, mentre in una fase precedente o nella società dalla quale hanno avuto origine. Il caso più antico è quello descritto da Omero, quando narra dei giochi che nell’Iliade Achille organizza in onore di Patroclo (XXIII, 259-897), in occasione dei funerali di quest’ultimo.
In quei contesti, dunque, certamente non erano affatto dei giochi, nel senso che si dà ai giochi dei bambini, ma non per questo partecipavano meno dell’essenza del gioco, quale la definisce giustamente Huizinga. È dunque mutata la loro funzione sociale, non la loro natura. Il “transfer” la degradazione che hanno subìto, li ha oggi svuotati del loro significato politico o religioso. Ma questo decadimento non ha fatto altro che svelare, isolandolo, ciò che in essi non era che gioco, struttura del gioco. Così ci descrive la natura del gioco Roger Caillois nel suo I giochi e gli uomini.
Ecco, allora, la classificazione che propone Caillois: Agon, giochi di competizione secondo regole stabilite. Qui valgono le capacità individuali e di squadra nel raggiungere il miglior risultato, la vittoria. Le regole condivise e equanimi, servono a dare a tutti, in linea di principio, la stessa possibilità di riuscita, a preconizzare una parità di partenza. In questi giochi competitivi sia a livello fisico che mentale, la molla del partecipante è quella di vedere le sue abilità riconosciute e superiori.
Ilinx, letteralmente «gorgo», ad esempio l’altalena o, più in generale, le attività legate alla vertigine che, abbinate alle maschere, al travestimento arcano, Mimicry, sono la base dei riti di possessione e di iniziazione in molte civilizzazioni tradizionali, antecedenti e sempre conflittive con quelle regolate da leggi sociali e politiche ben ponderate che tendono a mettere gli imprevisti legati alla vita sotto controllo. In sintesi, sostiene Caillois, il movimento da uno stato di natura, o meglio sottoposto ai capricci di una natura imperscrutabile ed indominabile, ad una civilizzazione che può, in qualche misura, dominare gli eventi, passa anche attraverso l’evoluzione dal prevalere dei giochi e dei riti legati alla «vertigine ed alla maschera», a quelli caratterizzati dall’Agon e dall’Alea, dove quest’ultimi, dominati dal caso, Alea appunto, sono in qualche modo i residui di quell’insopprimibile esigenza di trasgressione dalle regole codificate.
Alea, infatti, deriva dalla parola latina che indica il gioco dei dadi, la Sorte, entità impersonale ed imperscrutabile che dispensa i propri favori o torti senza che entri nel gioco nessuna caratteristica personale del giocatore, né di ordine morale, né abilità di alcun tipo. Dadi, roulette, slot machine e via enumerando, sono i giochi tipici governati dall’Alea, dall’affidamento totale del giocatore alla Sorte. Evidentemente stiamo parlando dell’esatto opposto dell’Agon anche se, a certi livelli, e come in tutte le cose, i due opposti si intrecciano, come quando la Fortuna nel ricevere o meno carte buone, viene potenziata o diminuita dall’abilità del giocatore. Nell’Alea per così dire “pura” il tiro dei dadi, testa o croce, la sfida è allora quella di vincere non tanto contro un avversario ma contro il Destino stesso, spesso chiamato a guardare con favore il giocatore proprio perché egli si mette totalmente nelle sue mani.
Nel caso dei Giochi Olimpici, sia antichi sia moderni, possiamo dire che essi rappresentano l’esempio di ciò che, tanto Johan Huizinga nel suo Homo Lundens che Roger Caillois in La maschera e la vertigine ritengono essere l’evoluzione dei “giochi prevalenti” ed in particolare del passaggio da quelli basati sulla «vertigine e la maschera» a quelli regolati dalle regole dell’Agon, cioè della sfida attraverso regole precise, nei quali si può vedere il progredire della civiltà, anzi la nascita stessa della civiltà, nella misura in cui questa consiste appunto nel trasmutare da un universo caotico ed imprevedibile, e per questo stesso spaventoso e vorticoso, ad uno regolato che poggia su un sistema regolato di diritti e doveri e non più di privilegi o forze indomabili alle quali bisogna sottostare.
E non sono forse i Giochi Olimpici la quintessenza dell’Agon, della sfida secondo regole precise e condivise, e dunque di una competizione che resta e si sviluppa in ambiti ben stabiliti, ordinati, prevedibili, tranne il risultato dovuto alla valentia dei singoli atleti? Ecco dunque spiegata, almeno in parte, l’aura di stabilità e di concordia, pur nella competizione, che ancora oggi emana dal braciere olimpico e dalla sua immortale fiamma accesa con un eterno raggio di sole.
Il mito olimpico
Venendo ora alle origini mitologiche dei Giochi Olimpici, dei Giochi prima dei Giochi possiamo dire, Pindaro ci narra di una delle più accreditate origini mitologiche delle Olimpiadi, a seguito della mitica corsa di quadrighe vinta da Pelope e grazie alla quale l’eroe ottenne la mano di Ippodamia.
La corsa era stata organizzata dal padre di Ippodamia, Re Enomao, figlio di Ares che, come molti altri personaggi della mitologia era gravato da una maledizione. Infatti, ad Enomao era stata predetta la morte per mano di suo genero. Per questo il re non era particolarmente incline a maritare la figlia. Possedendo due cavalli sacri, il Re sfidava tutti i pretendenti a una corsa con l’auriga. Coloro che perdevano sarebbero stati condannati a morte, mentre al vincitore sarebbe stata concessa la mano di Ippodamia.
Pelope, che godeva dei favori di Poseidone, si presentò alla gara con due cavalli alati e un carro leggerissimo, ma alla vista dei cadaveri dei pretendenti pensò di vincere con l’inganno e così convinse Mirtilo, figlio di Ermes, ad aiutarlo in cambio di una notte con la principessa Ippodamia. Mirtilo manomise quindi il carro di Re Enomao, che durante la corsa causò la morte del sovrano. Invece di onorare la sua promessa, tuttavia, Pelope uccise Mirtilo incorrendo nelle ire e nelle maledizioni di Ermes.
Fu proprio nel tentativo di placare gli Dei che Pelope, secondo questo mito fondativo, indisse i primi Giochi Olimpici della storia, olimpici poiché dedicati alla dimora degli Dei.
I Giochi Olimpici antichi si svolsero ogni quattro anni, con regolarità, dal 776 a.C. sino al 392 d. C, e duravano una settimana. La settimana in questione corrispondeva al plenilunio di agosto, e combinava i giochi con una seri di cerimonie religiose in onore degli Dei alle quali partecipavano tutti i popoli della Grecia. La sacralità delle Olimpiadi, metà agonismo, metà culto religioso, li rendeva così significativi per l’identità comune ellenica, altrimenti composta di entità sempre in lotta tra loro, che durante il periodo dei Giochi venivano sospese tutte le ostilità belliche, la pax olimpica. A partire dall’VIII secolo, i giochi che svolgevano ad Olimpia, città dove sorgeva un importante tempio a Zeus, la cui folgore, simbolicamente, accendeva il braciere dei Giochi.
Non a caso fu proprio il loro carattere sacro a decretarne la fine sotto l’imperatore cristiano Teodosio che li sospese nel 393 come espressione della spiritualità pagana. Passeranno molto secoli prima che il Libero Muratore Pierre De Coubertin li rilanciasse in epoca moderna (1896 ad Atene), ma questa è un’altra storia.
Raffaele K. Salinari