La pietra e la nuvola, da Alias 16-7-2022

La pietra e la nuvola, da Alias 16-7-2022

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C’è un gioco antico che si rinnova di giorno in giorno in ognuno di noi, a volte per caso altre, forse, per necessità: la pareidolia. Chi, infatti, non ha visto un volto scolpito nelle nuvole o ha osservato con meraviglia una immagine racchiusa dentro una pietra? Non a caso abbiamo utilizzato le nuvole e le pietre poiché rappresentano, o meglio possono rappresentare, le due forme polari di questa capacità della mente umana di morfizzare linee altrimenti senza un senso estetico compiuto.

Anche Leonardo descriveva questo fenomeno nel suo trattato sulla pittura: «E questo è: se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o pietre di vari misti, se arai a inventionare qualche sito, potrai lì vedere similitudine de’ diversi paesi, ornati di montagne, fiumi, sassi, albori, pianure, grandi valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie e atti pronti di figure, strane arie di volti e abiti e infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e bona forma. E interviene in simili muri e misti come del sono di campane, che ne’ loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabulo che tu imaginerai».

La scrittura delle pietre

«Ricordo che, da bambino, sul marmo rosato del bagno, vedevo chiaramente delinearsi la figura dell’uomo-formica che si inerpicava coraggiosamente verso una vetta invisibile coperta di nubi. Lo chiamavo così perché aveva il tronco da uomo e le gambe che mi ricordavano quelle di una formica. Le venature della pietra lo disegnavano chiaramente ai miei occhi e le nubi rosate che nascondevano la cima della montagna erano come quelle illuminate dal sole aurorale». Possiamo immaginare J. L. Borges mentre riporta, in uno dei suoi bestiari fantastici, questa pareidolia minerale come raccontatagli da un lettore della grande biblioteca di Buenos Aires mentre chiede la copia di un libricino prezioso di Roger Caillois, La scrittura delle pietre, che ha il pregio di inquadrare il fenomeno che tutti abbiamo conosciuto: trovare figure familiari, per così dire dipinte dalla natura stessa, all’interno di pietre che, in passato, hanno ricevuto un certo interesse estetico sia in Occidente sia in Oriente.

Il fascino delle figure inscritte nelle pietre viene dalla notte dei tempi; sull’agata di Pirro, ci dice Caillois, gli antichi riconobbero Apollo munito di lira e il corteggio delle Muse, ognuna con i propri specifici attributi. Gaffarel, il colto bibliotecario del Cardinale Richelieu ed elemosiniere del Re, nel XVIII secolo consacra un poderoso volume ai gamahés, pierre immaginose, talismani contrassegnati da geroglifici naturali con le orbite degli astri, in grado di guarire. Su alcune agate si può riconoscere la figura di un albero, o un eroe che affronta un drago, o l’immenso mare sul quale scorrono galere simile a quelle che il Romano vide riflessa negli occhi di una regina d’Oriente già pronta a tradirlo.

Presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, ad esempio, sono custoditi gli ultimi esemplari di paesine, o pietre di ruderi, che raffigurano quei paesaggi tanto cari ai pittori rinascimentali quali città in rovina o amene vallate disseminate di boschi. Queste pietre sono dunque decisamente «pittoresche», secondo la definizione che ne dava E. Burke nel suo celebre Inchiesta sul Bello e il Sublime (1756), un saggio in cui l’esteta inglese tenta di definire filosoficamente i concetti di «sublime» e di «bello», legandoli a diverse situazioni, sensazioni, luoghi. Tra le altre cose la sua analisi si sofferma sul potere evocativo di paesaggi in cui la natura si è come reimpossessata dello spazio che un tempo fu tra l’umano e il divino, ad esempio le rovine di antichi templi. Questi, secondo l’autore, sono in grado di trasmettere un senso di «bellezza ideale e immaginaria che non e percepita dal senso organico della vista, ma dall’intelletto e dalla fantasia». Più precisamente, non è tanto ciò che si vede, ma ciò che un tempo si poteva vedere o, dirà E. Burke, «ciò che si immagina», a suscitare il «sublime».

Ed ecco, allora che questi lusus naturae, questi scherzi della natura che sono le paesine, divengono quasi la quintessenza, la forma più pura, minerale, del «sublime». Ed infatti alcune di esse sono anche state utilizzate dai pittori come sfondo quasi fotografici per le loro miniature: esiste la rappresentazione di una scena tratta dall’Orlando innamorato dei Boiardo in cui le figure umane sono state sovrapposte a quelle naturali, un’altra ritrae santa Maddalena nel deserto, un’altra ancora Dante e Virgilio che visitano l’inferno. Qui fiamme rosse risaltano su arborescenze d’ocra mentre pare che le chiazze bianche del marmo rappresentino i pallidi corpi dei dannati.

Su questa paesina si concentra l’attenzione di Caillois che, giustamente, pone l’accento sulla convivenza manifesta tra i piani del regno sotterraneo dei supplizi e la genesi stessa della pietra, anch’essa estratta dal sottosuolo, i cui colori infernali sono scaturiti direttamente dal calore immane delle viscere terrestri: «Non è più l’estro di un pittore che sfrutta un curioso rapporto. Vi è qui l’incontro tra il soggetto e una materia che, per così dire, ne dà dimostrazione». Ma, forse più interessante ancora, è la relazione tra queste opere d’arte naturali e l’alchimia. A questo riguardo Caillois la cita incidentalmente, senza una vera intenzione definitoria, quando dice: «La natura fornisce non soltanto una riserva di modelli, ma creerebbe così direttamente opere mirabili in grado di gareggiare sullo stesso piano con i prodotti umani, senza che l’uomo avverta il bisogno di elaborare la rappresentazione mediante l’alchimia della propria arte (il corsivo è nostro)».

Queste pietre sono dunque una metafora; Aristotele ritiene questa figura retorica una trasgressione dell’uso proprio dei termini, ma una trasgressione che, a differenza degli usi impropri, può fare chiarezza. E può farla perché basata non sull’ordine dell’identico, bensì su quello, ben più complesso e sottile, del «simile», dell’analogia (Poetica, 1458 a 20). Nella Retorica riprende il tema: «Questo appunto è una metafora e porta l’oggetto sotto gli occhi […]. Occorre specificare che cosa intendiamo per dinanzi agli occhi e come ciò si ottenga. Esso è l’effetto prodotto dalle parole che rappresentano le cose in azione. […] In tutte queste espressioni, a causa dell’animare l’inanimato vi è vigore. […] E così fa spesso Omero, rendendo animate le cose inanimate attraverso la metafora» (Retorica, III, 11, 1411b). Ora, poiché per Aristotele – il filosofo del terzo escluso e del principio d’identità, sui quali si basa tutta la logica occidentale – collegare due cose impossibili significa formulare una contraddizione, la sua definizione designa qualcosa di apparentemente aporetico che invece, paradossalmente, può portare le cose «dinanzi agli occhi».

È a questo punto che queste pietre divengono una sorta di metafora (meta-phero, portare oltre) dato che, per collegare cose in apparenza contraddittorie, non bisogna intenderle nel loro significato letterale, bensì trasportarle oltre «animando l’inanimato». E non è forse questa la base stessa della trasmutazione alchemica, la possibilità, già insita in tutte le cose, di trascorrere l’una nell’altra?

La Pietra filosofale

A questo punto è interessante creare un parallelo tra l’alchimia in quanto scienza tradizionale e le pietre. Come si sa la ricerca alchemica, la Grande Opera, sembra avere come scopo proprio la scoperta, o la fabbricazione, della Pietra dei Filosofi, capace di trasmutare il vile metallo in oro. In realtà, ad una lettura più attenta ed empatica degli oscuri testi ermetici, si coglie una prospettiva più spirituale e meno «metallica»: in verità la Pietra Filosofale è la metafora utilizzata dai Saggi per indicare un processo di progressiva purificazione dell’individuo (il vile metallo) sino al raggiungimento di una condizione di Liberazione, il Moksa delle filosofie Indù e Buddista, lo stato di ricongiungimento con l’Entità Principiale. A questo punto appare chiaro come l’Oro dei Filosofi altro non sia che la natura stessa dell’uomo risvegliato quando abbandona, non la materia del quale è fatto, ma la materialità che lo tiene avvinto attraverso le insane passioni mondane ad uno stato di consapevolezza inferiore, e dunque infelice. Anche nel linguaggio latomistico «sgrossare la pietra» è inteso come metafora della propria evoluzione spirituale.

Ciò che qui ci interessa, dunque, è proprio come una pietra sia stata presa ad esempio di questa trasmutazione. Ecco che, allora, l’idea prosaica espressa da Caillois, nel senso dell’accezione più comune della parola alchimia intesa genericamente come insieme di combinazioni favorevoli, viene a mostrarsi nella sua intima essenza: l’alchimista, infatti, cerca di comprendere i segreti della Natura, la Natura Naturans, non per dominarla ma per farne parte totalmente. E quindi possiamo ben dire come nella Grande Opera sia realmente l’arte che imita la Natura e come la pietra possa rappresentare perfettamente il contenitore più puro dello spirito. D’altra parte l’origine celeste di alcune pietre, le pietre del cielo (meteoriti), identificate come ipostasi stesse della divinità, conferiva ad esse un’aureola di sacro, di misterioso, di magico e arcano. È da questa visione che nasce l’idea dei poteri superiori della pietra. E non era forse già contenuto nella pietra il sogno profetico di Giacobbe?

Le nuvole

Ed a proposito di sogni è interessante ricordare come in Oriente, particolarmente in Cina verso la metà del XIX secolo, sia sorta una forma artistica per così dire ready made che consisteva nel firmare da parte dell’artista una lastra di pietra dandole semplicemente un titolo; sono le cosiddette «pietre di sogno». Se si è frequentato anche solo di sfuggita certa estetica orientale, quella ad esempio giapponese ukiyo o delle «immagini del mondo fluttuante», si entra subito in questa visione proiettiva, pareidolica appunto, in cui le forme vengono completate, in questo caso, non solo dalla vista ma anche dalle suggestioni insite nel titolo stesso dell’opera. Una delle più famose, dell’artista K’iao Chan, si chiama Eroe solitario e rappresenta una figura difficilmente identificabile se non attraverso la titolazione.

In un romanzo di Lin Yutang Infanzia cinese, troviamo la descrizione di alcune di queste «pietre di sogno»: «Tutto era grande, semplice, severo. Un alto tavolo di mogano, dalla linea sobria e massiccia, era posto contro la parete nord, e sul suo ripiano non vi erano che tre oggetti artistici. Al centro, un antico tripode di smalto cesellato, incrostato d’oro. Poi una lastra di marmo raro i cui disegni naturali evocavano un paesaggio immerso nella nebbia e nella pioggia, con vette pressoché invisibili, con boschi e due giunche da pesca, il tutto di un incredibile verismo. I disegni naturali dell’altra lastra di marmo avevano le sembianze di una grossa anatra; la testa, il becco ed il collo erano pressoché perfetti, mentre leggere linee sembravano tracciare il contorno del suo corpo e macchie brune nella pietra evocavano i piedi palmati».

Arriviamo così alla relazione tra pietre e nuvole nella pareidolia. Basterebbe una frase di Mallarmè per racchiuderla:«Quelle pierrerie, le ciel fluide!» Che pietre preziose, il cielo fluido! (Conflit, Divagazioni 1897).La capacità pareidolica delle nuvole è forse quella più praticata. Tutti noi ci siamo estasiati a seguire le evoluzioni, le metamorfosi, del profilo di un nembo. Anche qui, come per le pietre che ne rappresentano apparentemente l’esatto opposto, e dunque lo specchio perfetto, questa loro proprietà è stata più volte sfruttata dagli artisti per consentire allo spettatore di completarne i tratti altrimenti indeterminati. Certo il fenomeno è applicato estesamente non solo alle nuvole; anche qui, come nel caso delle pietre interpolate dalla mano dell’uomo, certi dipinti devono la loro intelligibilità intuitiva alla nostra immaginazione, quel nous pathetikos che, secondo quanto dice Aristotele nel De anima, agisce nella nostra anima passando dalla potenza (le forme intuite) all’atto (le forme comprese) tramite l’azione del nous poietikos.

L’artista più geniale a questo proposito è Dalì, capace di giustapporre oggetti o personaggi dipinti e molto diversi tra loro, ma in modo da formare, se li si guarda dalla giusta prospettiva, una immagine totalmente altra dai suoi particolari. Anche Dalì ci aiuta nella pareidolia con i suoi titoli, sempre ambigui: si pensi a parole come «apparizione», come nel celebre Apparizione di un volto e di una fruttiera sulla spiaggia, che vogliono così sottolineare una vera e propria epifania, anzi una serie di epifanie, la comparsa ed al tempo stesso l’evanescenza di una immagine. D’altra parte egli stesso afferma, con lo stile consueto: «Il fatto che neppure io, mentre dipingo, capisca il significato dei miei quadri, non vuol dire ch’essi non ne abbiano alcuno: anzi, il loro significato è così profondo, complesso, coerente, involontario da sfuggire alla semplice analisi dell’intuizione logica». Anche Arcinboldo si è espresso in questo senso.

In realtà nellastoria dell’artemolti artisti si sono cimentati nel nascondere immagini all’interno di nuvole dipinte. Una di queste contiene il profilo di undemone; la troviamonell’affresco diGiottodedicato allamorte di san Francesco, all’interno dell’omonima Basilica di Assisi nel XIII secolo. Un altro degli esempi più noti è costituito dal gruppo di volti di profilo visibili tra le nubi del dipintoTrionfo della virtù(1502) del Mantegna, ma già tempo prima il pittoreaveva dipinto un cavaliere sul suo cavallo tra le nuvole poste dietro la celebre colonna disan Sebastiano(1456). E dunque, pietre animate, nuvole immobili, si corrispondono all’interno del Mundus Imaginalis continuamente prodotto da quel mistero insondabile che è la nostra stessa immaginazione.

Raffaele K. Salinari

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