Dagli albori dell’Arte architettonica, i cui fondamenti esoterici nascono col tempo stesso dell’umanità,
la colonna è stata la struttura portante per antonomasia. Molto più che altre componenti architravi,
ogive, trabeazioni essa rappresenta infatti l’elevazione e, al tempo stesso, la forza, la stabilità e la
bellezza, caratteristiche che la rendono centrale nella simbologia delle costruzioni sacre, basti
pensare solo alle due grandi colonne, Jakin e Boaz, descritte nella Bibbia all’ingresso del Tempio di
Salomone. Oggi ritroviamo queste stesse colonne, il cui nome significa rispettivamente «stabilità» e
«forza», all’ingresso di ogni Tempio della Libera Muratoria, ispirata da quella stessa Arte che
permette all’umanità di costruire il proprio Tempio interiore a modello di quello cosmico il cui
ordinatore è, per questa tradizione, Il Grande Architetto dell’Universo.
La colonna assomma il sé dunque tutta una serie di significati metaforici che la pongono al centro
dei miti fondativi in culture di ogni tempo e civilizzazione: quelle di Ercole, erette dall’eroe come
finis terrae col monito non plus ultra ad intimare di non oltrepassare il termine del mondo
conosciuto, o le fragili e colorate colonne dei templi scintoisti che si rivolgono come preghiere alla
Grande Dea Amaterasu, divinità solare da cui discendono tutte le cose. Nelle Americhe
precolombiane troviamo invece il Totem, colonna identitaria che ipostatizza tutto il complesso
sistema delle relazioni che intercorrono tra le componenti di uno stesso bioma.
Nei capitelli delle colonne si nascondono spesso i più reconditi segreti; Marius Schneider scoprì le
sottili corrispondenze tra i canti sacri e le figure effigiate su quelli romanici di San Cugat, di Gerona,
di Ripoll. A saperle ascoltare forse tutte le colonne dei luoghi consacrati cantano ancora la musica
delle Sfere Celesti. Ma, nella verticalità della colonna, il principio ascensionale verso il divino è forse
sancito plasticamente dalle storie dei monaci stiliti, come San Simeone, che visse all’altezza di ben
sedici metri per tutta la vita. Tanti altri esempi sarebbero possibili, ma quello che a noi
particolarmente qui interessa non è tanto cosa una colonna può sostenere o raffigurare, quanto ciò
che essa può celare.
LA COLONNA ALEFICA DI BORGES
Molte sono le storie che narrano di qualcosa contenuto all’interno di una colonna e che dunque
propongono un altro aspetto dei suoi significati simbolici: la colonna come scrigno, forziere affatto
speciale per materiali o immateriali che solo al suo interno possono, e devono, restare celati e
protetti, protetti perché celati, celati perché protetti, fino a quando il momento arriva e la pietra può
aprirsi per liberare il suo contenuto. La colonna è allora una sorta di clessidra di pietra all’interno
della quale il tempo scorre misticamente, invisibile, silenzioso e segreto, sino al suo destino.
Un esempio di permanenza misteriosa ed occulta lo troviamo nel racconto l’Aleph di J.L. Borges, in
cui il Maestro argentino sostiene che «i fedeli che si recano alla moschea Amr, al Cairo, sanno bene
che l’universo è racchiuso nell’interno di una delle colonne di pietra che circondano il cortile
centrale. Nessuno, certo, può vederlo, ma chi accosta l’orecchio alla superficie afferma di percepire,
dopo un po’, il suo incessante rumore. Esiste questo Aleph all’interno di una pietra? L’ho visto
quando vidi tutte le cose e l’ho dimenticato? La nostra mente è porosa per l’oblio».
Qui l’aura alefica è generata dalla presenza di una colonna affatto uguale alle altre in cui, però, è
racchiuso il misterioso punto attraverso il quale è possibile vedere tutti i luoghi del cosmo da tutte le
prospettive, senza sovrapposizioni, ed in tutti i tempi, passati presenti e futuri, contemporaneamente:
questo è l’Aleph. È allora la natura stessa del colonnato, i suoi rimandi specchiali, ipnotici, le
alternanze di luce ed ombra che si moltiplicano all’indefinito come i tasti bianche e neri di un
immenso pianoforte, a chiamarci verso la scomparsa della nostra stessa ombra, risucchiata dal
vortice di quella emanata da una delle colonne. Provare per credere, il gioco è tanto straniante,
ovunque venga fatto, da evocare l’Aleph: il centro percettivo in cui tra noi ed il mondo non vi è più
nessuna differenza, là dove il singolo torna al Tutto.
Anche nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo, a Ravenna, dentro una delle colonne che sorreggono il
mosaico dell’adorazione dei Magi, vi è celato un Aleph. Osservandola da una certa prospettiva si
vede, infatti, come la figura di una entità alata, pronta a dischiudere, a chi sospende l’incredulità,
come suggeriva Samuel Taylor Coleridge, il mistero dell’Uno: «trasferire dalla nostra intima natura
un interesse umano e una parvenza di verità sufficiente a procurare per queste ombre
dell’immaginazione quella volontaria sospensione dell’incredulità che costituisce la fede poetica». La
fede poetica dunque, nucleo di ogni conoscenza senza dogmi, racchiusa in una colonna.
LA COLONNA ALCHEMICA
Siamo verso il 1600, nella chiesa di Erfurt, in Germania, avviene qualcosa che nei secoli ci è stato
tramandato da diverse fonti: attraverso la breccia aperta da un fulmine improvviso, sarebbero usciti
da una colonna i manoscritti dell’alchimista Basilio Valentino. Nell’opera di J.J. Mangeti Bibliotheca
Chemica Curiosa, edita a Ginevra nel 1702, ne troviamo a pagina 47 del primo volume la descrizione
in latino: «per ictum fulminis columna Templi Erfurtensis ‚ in cuius medio diffracto scriptum,
delituerat» cioè un fulmine, rompendo una colonna del tempio di Erfurt, rivelò degli scritti nascosti.
Il brano è tratto dalla biografia di Basilio Valentino, per gli studiosi dell‘Arte Regia in realtà uno
pseudonimo legato a due opere fondamentali: Azoth e le Dodici chiavi. Fulcanelli, probabilmente
l’ultimo alchimista contemporaneo che abbia avuto la possibilità di operare in diretta continuità con i
Maestri del passato, chiarisce nel suo Le dimore filosofali, come «il nome Basilio Valentino unisce il
greco Basileus, cioè re, al latino Valens, cioè valente, al fine di suggerire il sorprendente potere della
Pietra Filosofale». La stessa interpretazione la troviamo nell’Edipo chimico di Leibniz, dal quale
probabilmente Fulcanelli ha tratto la sua.
Il XVII secolo è particolarmente importante per l’espansione dell’Alchimia: Spinoza stesso ci dice
dell’oro scaturito da una trasmutazione ad opera della «polvere di proiezione» lasciata al suo amico
Johann Friedrich Schweitzer, detto Helvetius, noto medico olandese, da un misterioso personaggio.
Il Seicento è anche segnato dai manifesti rosacruciani: nel 1614, infatti, era comparso a Kassel
l’opuscolo anonimo Fama fraternitatis Rosae Crucis, che raccontando la vita di Christian Rosenkreuz
(Cristiano Rosacroce), poneva le basi per una ulteriore tappa di quella Tradizione che, attraverso il
simbolo dell’Ordine, una croce con al centro una sola rosa rossa, rimanda a quella conoscenza
d’ordine cosmologico che può essere raggiunta attraverso l’ermetismo cristiano.
Ma ciò che simboleggia meglio l’opera di Basilio Valentino è forse proprio l’episodio della colonna:
perché la storia dell’Alchimia ci tramanda questo avvenimento come fondamentale nella
comprensione dei suoi segreti? Ebbene in Azoth, che come sottotitolo porta «L’occulta opera aurea
dei filosofi», troviamo l’acronimo V.I.T.R.I.O L.: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies
Occultum Lapidem, cioè visita l’interno della terra e rettificando troverai la pietra nascosta. La
scritta compare su tre immagini che, secondo l’interpretazione degli adepti, riassumono sotto forma
simbolico-allegorica tutte le fasi dell’Opera.
L’acronimo si trova ancora nel Gabinetto di Riflessione delle Logge Muratorie nel quale il profano
neofita, letteralmente pianta nuova, viene invitato a meditare le sue scelte prima di essere
eventualmente iniziato. Anche Dante, che aveva perso la «retta via», nell’affrontare la salita del
Purgatorio per ritrovarla, si descrive come «rifatto sì come piante novelle, rinnovellate di novella
fronda, puro e disposto a salir alle stelle».
Ecco allora che il lavoro interiore, il visitare la propria terra dove questa simboleggia anche le scorie
del corpo e della mente che bisogna conoscere per potersi così rettificare, tornare cioè sulla «retta
via», corrisponde all’opera di dissoluzione e coagulazione degli elementi che cuociono nel crogiolo
alchemico. Se il lavoro dentro e fuori di noi sarà costante, meditato, umile, ispirato dagli alti valori
dell’Uguaglianza, della Fratellanze e della Libertà, ecco infine che si mostrerà, come i manoscritti
usciti dalla colonna di pietra, l’Occultum Lapidem, la pietra della Salvezza, metafora di una
individualità libera dal giogo delle passioni ed aperta verso la conoscenza delle cose ultime.
LE RELIQUIE DI SAN MARCO E LA SPADA DI SAN VENCESLAO
Una colonna scissa miracolosamente la troviamo anche nella storia delle reliquie di San Marco.
Sappiamo che furono due mercanti veneziani, Rustico da Torcello e Bono da Malamocco, che ne
trafugarono le spoglie ad Alessandria e, celatele in una cesta contenente carne di maiale, impura per
i musulmani, le riportarono in laguna, sua destinazione finale. L’Evangelista, infatti, era già stato a
Venezia: giunto a Roma assieme a Pietro, viene da lui inviato ad Aquileia dove converte Ermagora
che sarà così il primo vescovo della città. Dopo quest’opera apostolica Marco parte per Alessandria
d’Egitto, ma viene costretto da una tempesta ad approdare alle «isole realtine», il nucleo della
nascente Venezia, oggi in corrispondenza del ponte di Rialto. Addormentatosi viene visitato in sogno
da un angelo che lo saluta con la nota frase «Pax tibi Marce, evangelista meus», e gli promette che
in quell’isola avrebbe riposato fino al Giorno del Giudizio; giunto ad Alessandria ne diviene vescovo e
subisce il martirio il 25 aprile del 78. È dunque da questa città che i due mercanti trafugano le sue
reliquie nel 829.
L’onore, e l’onere, di poter ospitare le spoglie del Santo legato alla sua fondazione, spinse la
Serenissima a costruire la chiesa omonima per consentirne la venerazione. Nel 1063 ebbero così
inizio i lavori della Basilica di San Marco che subì, però, un incendio devastante, dovuto a moti
politici, tanto che l’edificio dovette essere ricostruito. Nel 1094 la chiesa era finalmente pronta per
essere consacrata a Dio e a San Marco. Purtroppo, in questa circostanza, si scoprì che la teca
contenente le spoglie era scomparsa. Grande cordoglio e sgomento, ma il Doge Pietro Orseolo decise
che la cerimonia restasse fissata, cosi che il 25 giugno del 1098, giorno della consacrazione, accadde
il miracolo tramandato in diverse versioni negli annali e nei racconti di Venezia.
La prima ci narra di un braccio che, rompendo una colonna, indicò quella dentro la quale erano
racchiuse le reliquie, un’altra che da una colonna apparve l’immagine stessa del Santo. Ma noi
preferiamo quella del Fratello Giacomo Casanova che, nelle sue Memorie, ci dice: «Nel momento
culminante della celebrazione eucaristica, sulla colonna contenente i sacri reperti, apparve
l’immagine del Leone alato, simbolo marciano. Subito venne scissa la colonna indicata e
miracolosamente le reliquie riapparvero. E così la Serenissima salutò San Todaro, primo protettore
della città, per affidare le sue fortune e il suo orgoglio all’Evangelista dal Leone alato il cui libro
aperto significa pace, chiuso, guerra».
Anche nella magica Praga, la città del Golem, che ancora oggi vaga di notte per le stradine strette di
Stare Mesto, la città vecchia splendidamente descritta nell’omonimo libro di Angelo Maria Ripellino,
è una delle colonne del ponte Carlo a custodire la spada invincibile di San Venceslao. Piantata
originariamente in uno dei pilastri del ponte, ad un certo momento scomparve, forse trafugata da dei
bambini, spiriti innocenti e vicini alla Fonte della Vita, custodi, da allora, delle fortune della città;
oppure, dice un’altra versione della leggenda, inglobata all’interno della stessa colonna, custodita
nello scrigno di pietra in attesa del momento in cui, se mai ce ne fosse bisogno, un eroe possa
estrarla dalla sua vagina di pietra e brandirla: una Excalibur totalmente immersa nella roccia.
Quattro colonne, quattro storie, come i numeri che compongono la mistica tetraktis pitagorica.