La guerra civile internazionale siriana, iniziata nel 2011, mostra un quadro estremamente complesso: le sue molteplici chiavi di lettura sono tutte interconnesse tra loro formando, di fatto, uno scenario il cui esito avrà certamente un peso decisivo all’interno delle relazioni geopolitiche su scala globale negli anni a venire. In questo senso il conflitto siriano può certamente essere definito come «costituente». Per cercare di dispiegare questa definizione nella sua molteplicità di fattori, useremo diversi livelli di lettura, le cui interconnessioni appaiono evidenti nel momento in cui i singoli fatti storici si concatenano nelle loro relazioni causali.
Il quadro interno
Il cosiddetto «regime» di Bashar Al-Assad, succeduto al padre, governa la Siria ininterrottamente dal 2000, mentre la famiglia Al-Assad è al potere a Damasco dal 1971. Gli Al-Assad appartengono ad un minoranza islamica riconosciuta dagli sciiti, quella alauita, ma dichiarata eretica dal mondo sunnita. In un Paese come la Siria, la cui sensibilità religiosa si intreccia profondamente con la storia, uno sguardo sulla relazione tra il venti per cento di popolazioni alauita ed il resto dei cittadini è importante per capire parte delle dinamiche interne che hanno scatenato la prima fase della guerra civile. Senza entrare nella complessità delle posizioni religiose, basti dire che gli alauiti hanno una importante componente esoterica all’interno del loro credo, evenienza che li rende comunque sospetti anche agli occhi della comunità sciita ed, a maggior ragione, a quelli della componente sunnita.
Il nucleo religioso dell’alauismo, infatti, è riservato a pochi iniziati, e ciò che filtra della loro visione religiosa trasmette l’idea di una sensibilità che ha di fatto utilizzato lo sciismo solo come copertura formale di pratiche che si rifanno, come tutto l’esoterismo, ad una Tradizione che supera le singole visioni religiose. La religione alauita, infatti, sembra basarsi piuttosto su concetti gnostici e neoplatonici: secondo questa fede tutte le persone erano in origine delle stelle nel mondo della luce, ma caddero dal firmamento a causa della loro disobbedienza. Ogni alauita ha nella sua anima una parte della luce del divino creatore, cui si può accedere, e che porta alla retta via e alla salvezza. Anche se gli alauiti riconoscono formalmente i cinque pilastri dell’Islam, essi li considerano doveri simbolici, ragion per cui la massima parte dei musulmani, ed in particolare i sunniti, li considerano eretici. Gli sforzi di Ḥafez Al-Assad di portare i suoi correligionari all’interno della corrente sciita dell’Islam, sono stati comunque seguiti anche da Bashar che in ciò ha imitato il padre.
A fronte di questo, sin dal colpo di stato degli anni Settanta che lo portò al potere con un gruppo di ufficiale che volevano modernizzare il Partito Baath, di ispirazione socialista e laica, Hafez Al-Assad, anche in questo seguito dal figlio, ha al contempo cercato di consolidare la centralità della minoranza alauita all’interno dei gangli del potere statale, esercito, burocrazia, servizi segreti, ma anche di laicizzare la società e di praticare una tolleranza religiosa verso i gruppi sunniti, di fatto la maggioranza del Paese. Non a caso, nel 1982, i Fratelli Musulmani, si ribellarono con forza all’abolizione dell’Islam come religione di Stato e venero sanguinosamente repressi. Da notare che, da allora, un lungo periodo di stabilità ha caratterizzato la Siria, sino ai fatti del 2011. Il contesto religioso, dunque, ci da una prima chiave di lettura: da una parte una minoranza riconosciuta dal mondo sciita con a capo l’Iran e, dall’altra, lo stigma di eresia, in particolare per la sensibilità wahabita, il ramo più radicale dell’Islam istituzionale che ha come riferimento l’Arabia Saudita governata dalla dinastia Saud, a suo tempo scelta dagli inglesi proprio per questa chiusura religiosa.
Senza dilungarci troppo, ricordiamo solo come le tensioni religiose sono state, da sempre, utilizzate dalle potenze coloniali come forma di divide et impera verso i territori da colonizzare o da mantenere nell’orbita degli ex colonizzatori; in questa ottica la storia siriana non fa eccezione, anzi. In particolare gli alauiti sono stati ampiamente utilizzati dai francesi come gruppo di intermediazione e divisione delle altre popolazioni locali. Basti dire, per esemplificare storicamente, che dopo la caduta dell’Impero ottomano, Siria e Libano vennero poste sotto mandato francese, che concesse autonomia agli alauiti e ad altri gruppi minoritari per meglio controllare sunniti e sciiti duodecimani. Durante questo periodo molti capi tribù alauiti sposarono il concetto di una nazione alauita e cercarono di convertire la loro autonomia in indipendenza. Un territorio degli Alaouites venne effettivamente creato nel 1925, e nel maggio 1930 venne costituito il governo con sede a Latakia, che durò fino al 1937. Nel 1939 una parte della Siria nord-occidentale, dove la maggior parte della popolazione era formata da alauiti, venne ceduta alla Turchia dai francesi, facendo infuriare questa comunità che, capeggiata dal giovane comandante Zakī al-Arsūzī, oppose una fiera resistenza all’annessione. Citiamo l’episodio, oltre che per la sua importanza storica rispetto all’attuale ruolo della Turchia neo ottomana di Erdogan, perché questo capitano divenne in seguito uno dei fondatori del partito Baath. La parentesi storico religiosa, che poi sfocerà nell’attuale dominazione sulla Siria indipendente da parte degli alauiti, spiega dunque l’origine non solo degli appetiti sciiti–iraniani e l’opposizione a questi da parte dei sauditi, ma anche la genesi delle mire, da parte del neo ottomanesimo turco, su una parte della Siria.
Fatte queste premesse, bisogna dire che esiste una grande differenza tra il periodo di Hafez e quello di Bashar Al-Assad. Il primo, detto «la volpe di Damasco», ha sviluppato il suo regime all’interno della Guerra fredda, con tutte le implicazioni del caso, mentre il figlio si è ritrovato nel pieno di una grande crisi internazionale di cui parleremo poco più avanti. In realtà la presa del potere de parte del giovane Bashar, medico con studi in Occidente e non destinato alla successione, aveva suscitato grandi speranze all’interno di una popolazione anch’essa giovane e di buon livello culturale, oramai stanca di un regime governato dai servizi segreti e dall’interesse di pochi maggiorenti. Vale qui la pena ricordare come, appena arrivato al potere, il giovane Presidente aveva timidamente cercato una via per le riforme che, però, furono avversate probabilmente dalla parte più conservatrice del partito Baath e dell’esercito. D’altra parte l’inserimento, subito dopo il suo insediamento, da parte degli USA, della Siria nel numero degli Stati canaglia, l’ostilità con Israele per via dell’invasione del Golan e. successivamente a tutto questo, la forzata alleanza con gruppi estremisti quali Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina, il ruolo nella destabilizzazione politica del Libano, nonché il sostegno a Saddam Hussein, hanno oggettivamente ingessato il regime, impedendo così ogni spazio di manovra interna.
Le Primavere arabe e la crisi finanziaria del 2008
Questo quadro, dunque, rende ragione del motivi per cui, all’interno di quella serie di sommovimenti che hanno attraversato diversi stati nord africani e medio orientali, raggruppati molto frettolosamente e decisamente in modo strumentale sotto il nome cumulativo di «primavere arabe», il regime siriano non abbia potuto, o saputo, cogliere le possibilità di cambiamento che pure erano virtualmente possibili nel quadro di riferimento interno. D’altro canto, a parte il caso virtuoso della Tunisia, dove dall’abbattimento del regime corrotto e familistico di Ben Alì è nata una forma di democrazia certamente più partecipata, va ricordato come negli altri casi la «primavera» sia stata ampiamente strumentalizzata, ancora una volta, da parte di interessi non certo democratici, per favorire, se non imporre con la forza, dei regime change che si sono rivelati, alla luce dell’oggi, fattori di destabilizzazione di tutta la sponda sud del Mediterraneo ed anche vere e proprie dirette concause dell’attuale situazione siriana. A questo proposito basti brevemente ricordare come nel 2011, oltre a Ben Alì in Tunisia, altri tre capi di Stato furono costretti alle dimissioni, alla fuga e in alcuni casi portati alla morte: in Egitto Hosni Mubarak (11 febbraio 2011), in Libia Gheddafi, catturato e ucciso dai ribelli il 20 ottobre 2011 e in Yemen Ali Abdullah Saleh (27 febbraio 2012). Il caso del disfacimento dell’unità politica e territoriale della Libia, innescato con l’attivo contributo della Francia del Presidente Sarkozy, oggi sotto processo per aver ricevuto fondi dallo stesso dittatore libico, e dello Yemen, attualmente in preda ad una feroce guerra tra le tribù autoctone Huthi sciite ed i Sauditi che vogliono dettare legge in quel territorio, sono due esempi di teatri altamente destabilizzati con il concorso esterno di altre Potenze regionali, che ci danno un ulteriore elemento della situazione storica da cui prende avvio la crisi siriana.
In parallelo a queste situazioni regionali, possiamo considerare un altro cerchio di destabilizzazioni, conseguenti all’invasione dell’Iraq ed al suo smembramento de facto. Questa azione, cui gli USA furono spinti per affermare la loro egemonia mondiale dopo la fine della Guerra Fredda, costituisce un precedente importante per comprendere la portata internazionale della crisi siriana attuale, in quanto la distruzione del regime di Saddam Hussein, anch’esso formalmente laico e sostenuto dal patito Baath, fu compiuta non solo fuori dalle norme ONU sullo ius ad bellum e poi di quello in bellum ma decisamente contro di essi. In effetti il legame tra la guerra attuale in Siria e l’invasione dell’Iraq è a due livelli: il primo di categoria storica, il secondo geopolitico. Il legame storico è chiaro: come l’invasione dell’Iraq venne considerata la prima guerra del nuovo ordine mondiale a guida USA, e dunque una guerra «costituente», così la guerra civile internazionale siriana lo è della fase di ristrutturazione multilaterale che stiamo vivendo dopo il crollo degli USA come unica superpotenza. Il secondo legame, quello geopolitico, è da intendersi nella genesi dei gruppi armanti del radicalismo islamico, da Al Queida all’Isis, che nascono non a caso in quel e da quel periodo, e che grande parte hanno avuto ed ancora hanno nella vicenda siriana, nonché della questione curda.
Altro tassello del complesso gioco siriano è certamente, sul piano internazionale più vasto, la crisi finanziaria del 2008. In apparenza i due avvenimenti non si tengono ma, a ben analizzare il contesto, vediamo come la recessione mondiale dovuta ad una eccessiva deregulation dell’economia finanziaria, abbia di fatto colpito molto di più USA ed Eurozona che Cina e Russia, sbilanciando così a favore di questi paesi gli equilibri mondiali sino ad allora decisamente favorevoli agli Stati Uniti. Ecco che allora la guerra siriana può essere considerato il primo conflitto di questa nuova fase mondiale, in cui al monopolarismo americano si sta rapidamente sostituendo un nuovo multipolarismo che vede, da una parte tornare in gioco la Russia, e dall’altra la Cina contendere agli USA lo status di prima superpotenza economica, militare e commerciale.
Le parti in gioco
Ecco allora delineato il quadro multifattoriale nel quale inserire la guerra civile internazionale siriana: la crisi finanziaria del 2008 con il suo rimaneggiamento degli equilibri tra superpotenze, la nascita dello stato islamico a seguito dell’invasione irachena, la rinascita della questione curda, il consolidarsi di un «arco sciita» che dall’Iran attraverso Hezbollah ma anche la simpatia per Hamas ed il sostegno ai ribelli Hutini dello Yemen arriva sino agli alauiti sirianie a cui si contrappone un «arco sunnita» capeggiato dall’Arabia Saudita dei wahabiti Saud che contrasta quello sciita in Yemen, in Iraq ed anche, con le dichiarazioni recenti del Principe saudita Bin Salman, disposto ad intervenire direttamente in Siria al fianco dell’Esercito libero siriano, nonché dei gruppi radicali islamici da sempre finanziati dalla monarchia saudita. A questa platea va aggiunta la Turchia di Erdogan ed il suo nuovo ottomanesimo che rivendica una zona cuscinetto per impedire il formarsi di una continuità territoriale tra i Curdi di Iraq e Siria, ai sui confini. La questione curda è una ulteriore complicazione in questo quadro, essendo le rivendicazioni territoriali di questa etnia una costante della storia delle relazioni medio orientali sin dai tempi della costruzione della nuova Turchia da parte di Ataturk. In sintesi la tensione tra continuità territoriale perseguita dai curdi iracheni e siriani, ma anche presenti in territorio turco, e l’attuale politica anticurda di Erdogan, rappresenta una vera e propria guerra all’interno della guerra siriana, che sta, tra l’altro mettendo sotto tensione la Nato. Questa è anche, lo vedremo, la ragione dell’impossibilità da parte statunitense di ritirarsi del tutto dal contesto siriano. Ovviamente del gioco dei confini fa parte anche Israele, sempre occupante le alture del Golan e estrema nemica dell’Iran che vede come la vera minaccia strategica alla sua stessa sopravvivenza.
Ma i player di primo piano rimangono certamente gli Stati Uniti e la Russia. L’interesse di Mosca nella guerra civile siriana è duplice: da una parte salvaguardare le sue basi navali nel Mediterraneo, dall’altra contrastare gli Usa in medio Oriente riprendendosi quel ruolo di superpotenza che negli anni Settanta aveva in questa area. Dal canto suo la nuova amministrazione americana a guida Trump non vorrebbe impelagarsi nel teatro siriano troppo direttamente, i cosiddetti boots on the ground, ma non può, d’altra parte, rischiare di perdere la faccia nei confronti sia dei paesi della Nato, vista la preoccupante distanza strategica con la Turchia, sia soprattutto nella confrontation crescente con la Russia. Anche il cambio di amministrazione da Obama a Trump ha complicato, e non di poco, il quadro strategico siriano. In un primo tempo, infatti, quando nel 2011 la popolazione civile chiedeva riforme che non furono accordate, nacque l’Esercito Libero Siriano, subito appoggiato massicciamente dagli USA che però, ben preso, dovettero ammettere il fallimento di questa loro intervento per prossimità dato che le armi e molti miliziani passavano poi all’Isis. Questa politica di distacco, propria delle amministrazione Obama, ha dovuto essere rivista da Trump, sia perché evidentemente fallimentare, sia perché i supposti attacchi con gas nervino attribuiti al regime di Hassad hanno di fatto spinto gli USA ad intervenire direttamente con bombardamenti sostenuti anche da Francia e Inghilterra.
L’Isis e i Curdi
Un paragrafo specifico, seppur forzatamente schematico, va dedicato a questo punto al cosiddetto Sato Islamico, o ISIS o Daesh, a seconda delle dizioni e delle sue successive e multiformi evoluzioni. Nato anch’esso dal disfacimento iracheno, la formazione capitanata da Al-Baghdadi ha sempre avuto nel suo programma geopolitico la nascita di una entità islamica, il Califfato, che collegasse territori iracheni, siriani ed oltre. Quando, nel 2011, delle proteste di piazza contro il regime siriano si passa alla repressione violenta ed alla reazione armata sostenuta dall’Occidente, Al-Baghdadi comincia a inviare in Siria esperti di guerriglia per formare un’organizzazione locale.
Nel 2012 il gruppo annuncia la sua formazione come Jabhat al-Nuṣra li-Ahl al-Shām, più conosciuto come Fronte al-Nusra che in un primo tempo viene sostenuta dall’opposizione siriana e dai suoi alleati. Nel 2013 Al-Baghdadi sancisce che il Fronte al-Nuṣra non è che un’estensione in Siria dello Stato Islamico e che i due gruppi stanno dando vita allo «Stato Islamico dell’Iraq e Al-Sham». La parola araba Sham indica di fatto quella regione geografica che comprende il sud della Turchia, la Siria, ma anche parte del Libano, Israele, Giordania e Palestina e che viene così indicata come «Grande Siria o Levante». Il nome dunque spiega già la proiezione geopolitica dei gruppi che si muovono intorno a questa sigla.
Ora, senza entrare nel vero e proprio ginepraio delle formazioni che, sotto questo cappello, si sono succedute e sovrapposte alla sua guida, specie dopo la morte (?) di Al-Baghdadi, se non palesemente combattute tra loro, il dato essenziale è che dal 2013 al 2017 questo insieme di gruppi islamici hanno progressivamente conquistato porzioni sempre maggiori di territorio siriano imponendo una loro forma di organizzazione stutale, commerciale, religiosa, che ad un certo punto ha formato una continuità territoriale importante che si estendeva dall’Iraq alla Siria minacciando anche altri territori più lontani, come la Libia, ed articolandosi con movimenti analoghi nel Maghreb sino ai fondamentalisti di Boko Aram in Nigeria. Interessante rilevare, ai fini delle dinamiche interne al cosiddetto Esercito libero siriano, entità di fatto fantasmatica, che, nell’agosto del 2014, un comandante dello Stato Islamico ha dichiarato che «nella Siria orientale non c’è più nessun Esercito siriano libero, tutti i suoi membri si sono uniti allo Stato Islamico».
Nel 2014 il Presidente Obama autorizza i primi bombardamenti mirati contro lo Stato Islamico nel nord dell’Iraq. Da quel momento si apre ufficialmente la guerra contro l’ISIS sia in Iraq sia in Siria con alterne vicende, efferati massacri – basti citare i 50.000 yazidi, setta sciita, rifugiatisi sul monte Sinjar, di cui ne sono stai uccisi almeno 500 – o la distruzione di intere città d’arte come l’eclatante caso di Palmira. È in questo momento che entrano massicciamente in gioco i Curdi sia iracheni sia siriani, riconquistando prima Guwair e Makhmur, due cittadine in posizione strategica, aiutando così l’offensiva dell’esercito regolare iracheno. L’importanza dei Curdi è stata tale, in quelle fase, che nel 2014 il Consiglio europeo ha approvato la fornitura di armi per aiutarli a contenere l’avanzata dello Stato Islamico. Nello stesso anno le forze peshmerga curde ripresero il controllo della diga di Mossul, con l’aiuto dei bombardamenti aerei americani. Ma forse l’ampiezza ed il ruolo dei Curdi è ben evidenziata dall’assedio dell’Isis alla città curda di Kobanê, sul confine turco, liberata nel gennaio del 2015.
Tutto questo per evidenziar il ruolo fondamentale avuto da Curdi nel contrasto allo Stato Islamico in tutte le sue estensioni, e rimarcare come oggi, dopo aver pagato un prezzo molto alto alla liberazione dei loro territori, l’Occidente, Europa in particolare, volti ancora una volta le spalle per riaffermare la realpolitik nei confronti della Turchia. Per concludere, al momento in cui scriviamo possiamo affermare che l’entità islamica è stata disarticolata nella sua integrità territoriale, ma certo non battuta nella capacità di portare attacchi terroristici non solo in Medio oriente ma anche in Africa ed Europa.
Il quadro Europeo
In tutto questo, ultimo ma non per importanza, va delineato il ruolo dell’Europa o, meglio, di alcune potenze europee, segnatamente Francia ed Inghilterra come si diceva. Una delle conseguenze della guerra siriana è, di fatto, l’ulteriore disfacimento dell’Unione Europea, dovuto a due importanti fattori: il flusso di rifugiati dalla Siria e l’apertura delle rotte libiche dopo la caduta di Gheddafi, e gli schieramenti politico-militari. Il primo fattore sta mettendo a dura prova quello che resta dell’unità continentale, con una spaccatura netta tra i Paesi del cosiddetto Gruppo di Visegrad ed il resto dell’Unione, anche qui però con politiche di accoglienza molto diverse tra loro. Senza entrare in argomento, è evidente che il flusso dei profughi siriani è uno dei motivi di tensione interna all’Unione e sinché la guerra non verrà risolta, non potrà che aggravarsi. Questo è anche il motivo dell’ambigua politica europea nei confronti della Turchia, attualmente contenitiva della massa di rifugiati che in origine percorrevano la cosiddetta «rotta balcanica». L’altro termine divisivo è l’atteggiamento interventista o meno delle varie nazioni comunitarie. Anche qui l’Europa è spaccata in due, tra il protagonismo anglo francese e la relativa neutralità tedesco italiana. Sta di fatto che sia Francia che Inghilterra stanno utilizzando la guerra in Siria sia per coprire i loro problemi interni, quelli di Macron da un parte in calo di sostegno per le riforme impopolari, e quelli della May dall’altra, impelagata in una brexit dai contorni ancora mal definiti. Ovviamente anche Trump utilizza la guerra siriana per cercare di distogliere l’attenzione sui suoi problemi interni, primo tra tutti quello degli equivoci rapporti con la Russia di Putin.
La guerra infinita
Allora, in conclusione, dato il Risiko impazzito che si gioca nel teatro siriano, collettore e punto focale di crisi reginali e globali che vanno ben al di là del suo territorio, possiamo tornare ad affermare che, da come esso si concluderà, si definiranno i rapporti di forze nei prossimi anni sia per quello che concerne le relazioni tra superpotenze, sia all’interno del quadro europeo e mediterraneo. Possiamo anche affermare, purtroppo, che al momento, in vista di una possibile balcanizzazione del territorio siriano, una parte certamente in mano al regime di Bashar Al-Assad, ed altre forse in mano alla Turchia/potenze Occidenti/Arabia Saudita, la guerra in Siria giova a tutti, naturalmente meno che ai siriani ed ai democratici europei, ragion per cui un maggior impegno verso una soluzione diplomatico politica sarebbe auspicabile soprattutto da parte di ciò che resta o che si richiama ad una idea di sinistra sia a livello continentale che italiano.
Raffaele K. Salinari