La teologia cristiana è in buona parte esoterismo orfico-dionisiaco. Questa icastica affermazione, sostenuta, tra gli altri, anche da E. Zolla, si sostanzia appieno se ripercorriamo le tappe che, prendendo le mosse dall’originario percorso iniziatico, arrivano sino alla nascita e soprattutto alla resurrezione del Cristo.
Il punto di scaturiggine, diremmo la tonalità di fondo che accomuna i due culti, risiede indubbiamente nella carica eversiva del cristianesimo degli inizi rispetto a ciò che lo aveva preceduto. Così come Dioniso sconvolge, con il suo arrivo in città, la sua epidemia, le regole del vivere civile, introducendo una modalità di relazioni tra uomo e natura totalmente sovvertita, così i primi cristiani si staccano dalla Legge giudaica sovvertendone l’ordine gerarchico millenario. Sia nel dionisismo sia nel cristianesimo delle origini tutte le distinzioni di sesso, di classe, finanche di età e di appartenenza ai mondi umani e divini, biologici, vengono per così dire livellati e portati ad un piano di parità nel quale tutto e tutti possono accedere alle massime forme della liberazione dai vincoli della vita sensibile attraverso l’ebbrezza estatica. Per i seguaci di Dioniso non esiste, infatti, nei momenti topici, quando il dio chiama a raccolta ed al tumulto bacchico i suoi fedeli, nessun distinguo tra la Zoè ed ognuna delle sue Bìos, che così la scompongono e la ricompongono nell’eccitazione menadica.
Allo stesso modo i cristiani introducono non solo l’indistinzione tra mondi creati – tutto viene da Dio, tutto e tutti partecipano allo stesso modo della sua Manifestazione, e per questo, devono rendergliene merito – ma anche una nuova verità: che sono i derelitti, i poveri, gli emarginati, quelli più vicini al cuore del Signore, come nel corteo di Dioniso; una rivoluzione epistemologica radicale sia rispetto alle consuetudini ed alle gerarchie ebraiche vigenti, sottolineata dal Cristo stesso attraverso la predicazione ed il suo gesto estremo – il sacrificio di sé – sia alle leggi della polis.
La sensibilità cristiana, poi, era naturalmente aperta all’orfismo di matrice dionisiaca poiché anch’essa vedeva il corpo come una prigione per l’anima. Una prigione da santificare, allora, perché creata dal dio stesso, da superare attraverso l’estaticità della visone divina e della ripetizione del sacrificio di fondazione del nuovo culto: l’eucarestia.
E qui la coincidenza, meglio sarebbe a dire la filiazione, emerge in tutta la sua potenza simbolica. Gesù proclamò di essere la «vera vite, cui aveva accudito suo Padre» (Giovanni XV, 1-2) e che gli apostoli dovevano attaccarsi a lui «come i grappoli al tralcio». Dioniso è lui stesso la vite, da cui non solo nasce il vino, ma che viene potata per prenderne i frutti, così morendo e rinascendo in essi. E per questo vediamo come il cuore pulsante di entrambe le ritualità sia certamente la resurrezione; San Paolo su questo punto è categorico: alla domanda «cosa porta a credere»? La sua risposta è «la resurrezione della carne».
La vicenda dionisiaca è nota: bambino egli viene ucciso e smembrato dai Titani; cotto sulle braci ed anche bollito, viene poi ingerito dagli stessi che morranno folgorati da Zeus per il loro peccato. Nella teologia orfica, infine, Dioniso ricomposto salirà all’Olimpo e siederà alla destra di Zeus, suo Padre.
Il mito dionisiaco getta le basi per quello cristiano. In primis Dioniso, distinguendosi chiaramente da tutti gli altri immortali, è invece un dio che muore; quando poi viene ucciso con l’inganno, dunque con un tradimento analogo a quello di Giuda, si stava rimirando in uno specchietto mentre giocava con un altro semplice giocattolo: una trottola. Qui, come ci ricorda Giorgio Colli, il gesto dionisiaco del rispecchiamento altro non è che un atto cosmogonico: Dioniso sta creando il Mondo attraverso la sua stessa Immagine. Nello specchio egli genera da sé la molteplicità che prima era in lui indivisa. La trottola, parimenti, è il simbolo della dinamica vitale, che sempre deve essere ristabilita affinché non cessi il suo movimento. Dioniso è dunque, al pari di Gesù figlio di Dio, il Logos, l’artefice del Mondo fenomenico. E ad esso viene sacrificato affinché il Mondo continui ad esistere.
Nella versione cristiana, tutta ancorata al tema centrale della resurrezione dei corpi alla fine dei tempi, il sacrifico del Nazareno indica questa possibilità in corpore vili. È lui stesso a morire e resuscitare, non solo per significare la sua vicinanza con l’umanità sofferente ma anche, e forse soprattutto, per trasmettere questo messaggio fondamentale, vero mito fondativo del cristianesimo.
Ed è proprio questa resurrezione dei corpi che troviamo nel prosieguo del mito dionisiaco. Anche Dioniso viene “resuscitato” mercé la ricomposizione dei suoi pezzi smembrati. Interessante notare come, nella teologia orfica, dalle ceneri dei Titani che lo avevano mangiato verrà forgiata l’umanità, che dunque diviene la depositaria del corpo del dio, così come l’eucarestia provvederà a suggerire ai cristiani che spezzeranno il pane e lo ingeriranno come fosse il corpo del Salvatore, mentre berranno il suo sangue attraverso la transustanziazione del vino consacrato.
Ma esiste un significato ancora più profondo che unifica le due ritualità, ed è non solo il senso genericamente salvifico, ma anche quello più strettamente concreto: così come il contatto del vino e del pane diviene non solo fonte di salvezza e ricordo, ma anche di Grazia terrena, cioè di una buona vita materiale, così nel mito dionisiaco il dio elargirà alle sorelle Spermo ed Eno la capacità di tramutare tutto in pane e vino, ed alla terza sorella, Elaide, ciò che toccava in olio; così ci narra Ovidio nelle Metamorfosi (XIII, 650).
E dunque il significato salvifico trascendentale si rispecchia sia nel mito orfico sia nel racconto evangelico, ma anche il suo risvolto pratico, legato alla vita contadina ed ai suoi sempre possibili rovesci, trova posto in entrambi. D’altra parte se il messaggio cristiano fosse stato solo di Salvezza nell’aldilà senza un plus di liberazione e giustizia sociale ma anche di buona sorte nella vita di tutti i giorni, non avrebbe avuto tanta fortuna.
Anche il potere del vino è centrale in entrambi i culti. Così come i seguaci di Dioniso si inebriano per cambiare la loro percezione del mondo, così anche i primi cristiani lo fanno per avere un accesso immediato alla visione del divino. Da questo punto di vista, da sempre, prima il miele fermentato nella pelle del caprone, e la sua danza circolare – la tragodia, da cui nasce la Tragedia – ed infine il vino, così come la canapa e l’oppio in Oriente, sono stati utili strumenti per aprire le «porte della percezione». Si può dire che non esista una religiosità in cui non entri qualche droga o qualche stato alterato di coscienza costruito ad arte.
Pensiamo solo, di là dal vino, al “combinato disposto” delle giaculatorie e della luce che emana dalle vetrate nelle chiese. Sono artifizi antichi per accedere ad una visione agognata. La presenza in eccesso di anidride carbonica nel sangue, dovuta ad esempio alle giaculatorie di recitazione dei nomi di Maria, e dunque a un tipo particolare di respirazione che deprime l’ossigeno nel cervello, combinata alla sensazione visiva allucinatoria dei colori fondamentali che filtrano la luce nelle chiese, in particolare quelle medioevali, porta il fedele ad uno stato di eccitazione ed al tempo stesso di fragilità sensoriale che ben dispone al meraviglioso, a maggior ragione se si è alla ricerca di una immagine numinosa. Nei primordi cristiani i naasseni samaritani mischiavano mandragora al pane eucaristico.
E dunque la resurrezione è il punto centrale sia del dionisismo sia del cristianesimo. Entrambi, Dioniso e Cristo, risorsero dopo la loro permanenza nel mondo infero. Dopo la morte Gesù scende nello Sheol, come Dioniso nell’Ade.
Altra coincidenza simbolica è che quando Gesù scende nell’inferno questo non è abitato in modo permanente, perché le anime che sono nello Sheol aspettano ancora il giudizio di Dio. Il termine Sheol, nella Bibbia italiana, è stato tradotto con «soggiorno dei morti».
Giona riporta quest’esperienza: “Io ho gridato al Signore, dal fondo della mia angoscia, ed egli mi ha risposto; dalla profondità del soggiorno dei morti ho gridato e tu hai udito la mia voce” (Giona 2:2).
Al momento della sua morte Gesù è sceso nel medesimo luogo di Giona, come dice lui stesso: “Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti” (Matteo 12:40).
Ora, è interessante notare che, solo qualche secolo dopo, nella mutata situazione dottrinale del cristianesimo, l’inferno diverrà una dimora stabile e si riempirà di anime dannate. La storia di luoghi come il Paradiso, il Purgatorio, il più recente di tutti, e dell’Inferno stesso, richiederebbero uno spazio che qui non abbiamo. Ci limitiamo a riportare l’opinione di Jacques Le Goff che sostiene come «il Purgatorio di Dante rappresenta la conclusione sublime della lenta genesi avvenuta nel corso del Medioevo; esso ha preso forma nella seconda metà del XII secolo. In precedenza, pensando all’aldilà, gli uomini immaginavano solo due luoghi antagonisti, l’Inferno e il Paradiso. A poco a poco, ha poi iniziato a delinearsi una realtà intermedia, la cui funzione era quella di consentire la purificazione delle anime prima dell’ingresso nel Paradiso», con la conseguente vendita delle indulgenze, completiamo noi.
Anche Dioniso risorge dall’Ade quando, nelle feste di primavera, esce dalla palude insieme alle anime dei morti e si festeggia il momento di passaggio delle giovani donne alla maturità attraverso il rito dell’Altalena, ma anche l’accoppiamento della Basilinna al dio attraverso le Nozze Mistiche che risvegliano il principio vitale e lo fanno scorrere nuovamente nel Mondo.
In questo punto, in specifico, avviene una convergenza cha vale la pena analizzare con attenzione. Ed infatti non si tratta solo di un’analogia superficiale, aneddotica, tra il Dioniso che risorge dal mondo infero, cioè sotterraneo, e porla in parallelo con il Cristo che risorge dopo la sua visita al «soggiorno dei morti». Da chiarire, invece, sono le modalità stesse di questa resurrezione, che illuminano di una luce dionisiaca abbagliante il cristianesimo, restituendogli, a nostro avviso, quella carica originaria di religiosità legata al Principio Femminile, sempre presente in tutte le spiritualità di ogni latitudine e tempo e mai completamente azzerata dalla prevalenza patriarcale.
L’origine è legata alla Grande Dea minoica, la Potnia mediterranea che tutto creava e che in tutto si rispecchiava: Gaia, Questa divinità unica e increata era espressione della Zoè creatrice, femminile sia per forza generativa sia per vocazione di accudimento della vita, ma anche per la sua capacità di richiamare infine nel suo grembo le singole manifestazioni; la loro morte, dunque, era necessaria affinché altre potessero trovare posto nell’eterno ciclo dell’esistenza. Con l’avvento delle popolazioni guerriere legate alla pastorizia e non solo all’agricoltura, l’invasione dei Dori, la Grande Dea viene progressivamente sostituita da divinità maschili e lontane dal Mondo, immortali; la sua unicità dispersa in tante divinità diverse, ognuna delle quali altro non è che un suo aspetto specifico, ma tutte governate da un patriarca, Zeus che ha mantenuto per sé il potere generativo della folgore, cioè del fuoco che crea e distrugge, ma anche del parto: Atena e Dioniso stesso.
In questo passaggio da una divinità femminile unica ad un panteon plurimo ed a guida maschile, la figura di Dioniso si presenta come il dio di passaggio tra il maschile ed il femminile, in tutti i sensi. La caratteristica transgender, oggi si direbbe queer, di Dioniso, è certificata da molti autori, basti pensare a W. Otto ed allo stesso Bachofen. Il «dio delle donne», dunque, è tale poiché al tempo stesso paredro, figlio ed amante della Grande Dea. Ed è in questa veste che egli riceve dalla Basilinna in occasione delle Grandi Dionisiache di primavera, durante l’accoppiamento sacro, il Principio Vitale che poi riverbererà su tutta la natura, a partire dal dono del vino. E dunque questo accoppiamento sacro, hieros gamos, che avveniva in un luogo protetto e officiato da sole sacerdotesse, caso unico nella Grecia patriarcale, va interpretato nel senso giusto: cioè non come passaggio da Dioniso alla Basilinna, la moglie dell’Arconte Basileus, della forza vitale, ma esattamente al contrario, come flusso cioè che dalla donna sacra passa e vivifica il maschile, “portando ad effetto” le sue potenzialità germinative. Allora, in conclusione, è la Basilinna che “libera la fecondità“ di Dioniso e in questo modo lo fa rinascere. In verità ciò accade durante ogni atto sessuale, o almeno una consapevolezza orientata così dovrebbe intenderlo.
Ora, tutto questo trova un corrispettivo diretto nel ruolo che Maria ha nella resurrezione del Figlio. Se, infatti, osserviamo bene alcune cerimonie cristiane del Sud in occasione della Pasqua, ad esempio la processione dei Misteri di Taranto, vediamo come la ricerca del Cristo Morto da parte della Madonna altro non è che la necessaria ricerca da parte della Grande Dea, cioè Maria Vergine e Madre di Dio, del corpo del figlio allo scopo di farlo rinascere. Sarà, infatti, l’amore, sintesi simbolica di tutti gli amori, terrestri ed ultraterreni, della Madre per suo Figlio, cioè della Grande Dea per tutte le sue creature, a ridargli la forza vitale. È tanto forte questo senso di trasmissione spirituale che alla fine della sua vita Maria, donna mortale ma sempre Madre di Dio, non muore: si addormenta in un sonno eterno, sognando il Mondo.
Altri particolari, di non minore importanza, rimandano ad alcuni dei protagonisti della prima Chiesa, in particolare a San Paolo, il fondatore stesso della cristianità come Istituzione. Basta un episodio solo a farci capire quanto il dionisismo, e la sua carica simbolica, dovesse necessariamente trapassare nel neonato cristianesimo. Nella sua venuta a Roma, S Paolo fa naufragio a Malta e li, in una grotta, viene attaccato da serpenti velenosi che egli però rende innocui. Ecco allora che il Santo, fondatore della teologia politica cristiana, diviene anche il patrono dei Tarantolati in terra di Puglia, l’ultima propaggine dionisiaca nel mondo contemporaneo, come ben dirà Ernesto De Martino.
E con «Santo Paolo mio delle tarante», si chiude il cerchio che rimanda il cristianesimo e la sua fonte simbolica: quel vasto ed inesausto fenomeno che è il dionisismo.