Il Gioco delle Perle di Vetro, da Alias, 8-1-2016

«La musica del mondo e dei sapienti siam pronti ad ascoltare riverenti, e ad evocare a festa i venerati spiriti di periodi più beati. Siam tutti compresi dei misteri della scrittura magica che in veri simboli chiari e formule ha serrato il fervor della vita sconfinato. Tintinnano come astri di cristallo dobbiamo ad essi se la vita ha senso; nessuno uscire può dal loro vallo se non cadendo verso il sacro centro».
Questi sono i versi della poesia che Herman Hesse dedica al Gioco delle perle di vetro, la forma perfetta del gioco totale al centro dell’omonimo romanzo, l’ultimo dell’autore, in cui le immagini che scaturiscono da questo particolarissimo Gioco ci conducono via via attraverso tutte le suggestioni ideali che troviamo descritte nei suoi precedenti racconti, da Demian, del 1919, passando per Siddarta sino a Der Steppenwolf, Narciso e Boccadoro e, non meno importante, L’ultima estate di Klingsor.
Come ci ricorda Marco Dotti nel suo Il calcolo dei dadi, il gioco è libero dal vincolo del tempo ma, al contrario degli altri fenomeni fondamentali in cui si articola la vita umana – lavoro, lotta, morte e amore – non gode di uno spazio autonomo. Il gioco pervade la vita e, osservava già nel suo Grundphänomene des menschlichen Daseins (1955) Eugen Fink, proprio perché mischiato con l’amore, la morte, il dominio ed il lavoro, li abbraccia tutti.
E allora, come dice Hesse commentando la sua opera: «Non basta disprezzare la guerra, la tecnica, la febbre del denaro, il nazionalismo. Bisogna sostituire agli idoli del nostro tempo un credo. È quel che ho sempre fatto».
Entrare nel gioco significa entrare in un sistema di obblighi rituali, e la sua intensità deriva da questa forma iniziatica, ci ricorda Jean Braudillard nel sul saggio Della seduzione. E così questo romanzo-testamento, il cui protagonista è il Magister Ludi Josef Knecht, è l’ultima e più completa espressione del nuovo «credo» da lui descritto e profetizzato per tutta la vita e che, come tutte le credenze che aspirano ad affermarsi e sostanziarsi nel tempo, ha la sua ritualità: i gesti del Gioco delle perle di vetro, di cui l’autore ci racconta del come e del perché la sua pratica, di evidenti ascendenze neoplatoniche, sia stata perfezionata nella utopica terra di Castalia, creando infine un gioco misterioso, dalle regole esoteriche, che i suoi officianti, i Magister Ludi, apprendono durante lunghi anni di studio e meditazione.
E così, attraverso una mistica disciplina, ispirata da una visione trascendentale, vive il Gioco delle perle, il Glasperlenspiel, riproduzione microcosmica del fatale movimento delle sfere celesti: un’epitome del campo – l’universo stesso – in cui i giocatori si cimentano.

 

Il gioco fantastico
Ma se le «perle di vetro» sono un gioco, a che tipologia ludica appartengono? Certo a quella dei giochi fantastici. Questa corrispondenza ideale tra il microcosmo del Gioco ed il macrocosmo del «sacro centro» rende infatti compossibili, nel suo svolgimento, tutte le quattro tipologie ludiche già individuate da Roger Caillois ne Il gioco e gli uomini: Agon, Alea, Mimicry e Ilinx (il termine greco per vertigine). L’attività con le perle, infatti, assomma al suo interno sia le caratteristiche dell’Agon, del gioco che contrappone due o più persone, sia dell’Alea, la sfida del giocatore contro il Destino, riproduzione della sfida cosmologica giocata da Ananke, la necessità, contro Kaos, il non ordinato, l’informe. Il Magister, infatti, non gioca solo contro un altro giocatore ma, contemporaneamente, contro il Caos, il «non manifestato» a cui tutto potrebbe tornare se la sua mano fallisse. A questa dissoluzione potenziale egli oppone dunque se stesso e la sua Necessità, l’ordine costituito dalla civilizzazione che egli rappresenta e sancisce. Così facendo il Magister si fa carico, per così dire, di quel ruolo di difensore della realtà fenomenica che Rilke, nelle sue Elegie Duinesi, attribuisce alla figura archetipica della Madre quando ne descrive la potenza di contrastare il Nulla sempre in agguato: «Ah, dove mai sono gli anni, quando tu soltanto con la snella figura sbarravi il ribollente caos?».
Ma il Gioco delle perle di vetro va ben oltre questo dualismo per inoltrarsi, con le sue possibilità indefinite, sin dentro il dominio della Mimicry cioè dell’imitazione, del travestimento: si parte da qualcosa, materiale o immaginale, che dunque sia o possa essere – un concetto, una sonata, un oggetto, un’immagine poetica – per farla poi evolvere, renderla progressivamente sempre più distante da se stessa in una teoria di trasmutazioni continue, di infiniti rimandi analogici, di «come se» che celebrano una sorta di laico carnevale dello spirito.
Avere immaginazione significa godere di ricchezza interiore, di un flusso ininterrotto e spontaneo di immagini. Spontaneità, però, per il Magister Ludi impegnato nel Gioco delle perle, non significa invenzione arbitraria: le regole del gioco sono ferree. Come per la disposizione delle note su di un pentagramma o del metro per i versi poetici; solo dal rispetto delle regole nascerà l’immaginazione propria del Gioco. Sul piano etimologico, «immaginazione», infatti, è solidale con imago, «rappresentazione, imitazione» e con imitor, «imitare, riprodurre». Ecco che allora il Gioco delle perle di vetro, e per una volta l’etimologia riecheggia sia le realtà psicologiche che le verità spirituali, imita dei modelli esemplari – le immagini archetipiche del Cosmo tratto dal Caos – e così li riproduce, li riattualizza, li ripete incessantemente.
Avere immaginazione, per il giocatore delle perle di vetro, significa dunque rivedere il mondo nella sua totalità per rigenerarlo, giacché è potere e missione delle Immagini mostrare la trama invisibile che tutto connette e sostiene, quel velo di Maya che rimane refrattario al concetto pur sostanziando i fenomeni del Mondo: uno stato di grazia concesso a pochi eletti. Ci si spiega, allora, come dice Mircea Eliade, anche «la disgrazia e la rovina di chi è privo di immaginazione»: un tale individuo è tagliato fuori dalla realtà profonda della vita e della sua stessa anima.
Finalmente, allora, il Gioco delle perle di vetro, vero o virtuale che sia, ha come compito, come tutti i giochi, quello di attivare l’Imaginatio vera, quel noûs poetikos di cui ci parla Aristotele nel terzo libro del De anima: si tratta di un’Immaginazione poetica che non serve assolutamente ad «inventare» mondi; non è un esercizio che produce erratica fantasticheria bensì, al contrario, oltre a riconoscere il materiale poetico, le Immagini attraverso le quali possiamo cogliere la «realtà in atto» del Mondo, le rigenera. Teofrasto ci dice che per Parmenide l’anima e il noûs sono la stessa cosa, e che quindi: «Noûs non indica affatto la pura attività raziocinante, ma altresì volontà, sentimento, l’anima umana intera».
E di questa stessa «disciplina» parla Gregory Bateson, nel suo tentativo di creare una nuova epistemologia per svelare la «struttura che connette» il vivente»; egli propone l’identità essenziale tra tutte le manifestazioni del Mondo come definizione stessa di ecologia: «Ciò che noi crediamo di essere, dovrebbe essere compatibile con ciò che crediamo del Mondo intorno a noi».
L’accesso alla realtà immaginale prodotta dalle perle di vetro allora, come ci ricorda Henry Corbin nel suo Corpo spirituale e terra celeste, sui neoplatonici di Oriente, ci viene aperto da quella ermeneutica per eccellenza indicata dalla parola ta’wīl, che in fārsī letteralmente significa «ricondurre una cosa alla sua fonte», al suo archetipo, alla sua realtà vera. Per il Magister Ludi, dunque, il senso figurato del Gioco non è allora che una metafora (majās), mentre il senso vero (haqīqat) è l’accadimento creativo che tale metafora costruisce.
Attraverso questa tonalità immaginale, il Gioco delle perle di vetro esprime infine la sua peculiare essenza di Ilinx, cioè di Vertigine, cioè di quelle tipologie di giochi che, secondo la teoria «evoluzionista» di Huizinga nel suo Homo ludens, si situano all’inizio della storia, quando una combinazione di dispositivi vertiginogeni – l’altalena, la taurocatapsia, l’acrobazia, la danza – trasportava l’uomo dinanzi alle Potenze primordiali, attraverso l’estasi generata dal vortice e/o dalla paura suggestionante della maschera, sino alla visione mistica, l’epopteia dei Misteri eleusini. Nel Gioco delle perle di vetro la vertigine estatica si genera naturalmente: il giocatore proietta la sua mente in quelle zone rarefatte della speculazione teoretica in cui manca un appiglio immediato alla realtà fenomenica e l’anima avverte come un baratro nel quale è naturale precipitare: operare nel senso di una discesa vorticosa attraverso un abisso che produce la sua stessa caduta.
Il Gioco delle perle di vetro, il loro tintinnio luccicante, il prisma dei cangianti colori che si liberano da esse, proietta così il Magister Ludi in una sorta di «volo onirico», una rêverie lucida che diviene sintesi fra caduta ed elevazione. È dunque nel Weltinnenraum «spazio interiore del Mondo» che la vertigine fa entrare il giocatore delle perle di vetro.

 

L’intento del Gioco
E così, anche se nulla sappiamo delle regole di Gioco, per effetto del suo restare nell’ambito dell’esoterico, cioè della trasmissione orale da Maestro a discepolo, possiamo cogliere qualcosa del suo «intento». I suoi effetti sulla Storia ed i singoli giocatori lo configurano, infatti, come ibrido tra una raffinatissima Ars Combinatoria – l’Ars magna di Raimondo Lullo, una sorta di catasto universale dei concetti affine alla «matematica totale» preconizzata da Leibnitz nella quale viveva la possibilità di simboleggiare tutti i concetti in segni geometrici o algebrici – e la Filosofia alchemica, con la quale il Gioco ha in comune la ricerca dell’essenza universale attraverso la ricombinazione degli elementi, il ricongiungimento delle polarità opposte, il Rebis filosofico, mercé la gestione sapienziale delle perle di vetro.
La pratica di queste affinità intime tra concetti, teorie, motivi musicali e artistici, questa necessità di riconoscerne le connessioni segrete per ricomporre tutte le signatura rerum in un quadro armonico, risponde ad un «intento» di equilibrio profondo; Hesse attribuisce la nascita del Gioco alle conseguenze degenerative sullo psichismo umano di un periodo di decadenza dello spirito, l’età della «terza pagina», in cui dominava, secondo il racconto che ce ne fanno le cronache di Castalia: «Un largo individualismo di stampo borghese», che diede vita però, con la nascita del Gioco, come direbbe Bataille ne L’esperienza interiore, ad un sussulto di spiritualità poiché: «L’uomo è una particella inserita in insiemi instabili e aggrovigliati […] un punto di arresto propizio a uno sgorgo […] uno zampillo infiammato, eccedente, libero persino dalla propria convulsione. Un carattere di danza e di leggerezza scomponente». Ogni epoca, questo è l’arcano e la morale, coltiva segretamente il seme dionisiaco del suo contrario, della sua dissoluzione e rinascita.
Per questo nel Gioco il momento di avvio non è dato a priori: si tratta di cogliere un’opportunità, attendere l’arrivo di kairos, l’ispirazione sottile che trasporta con i suoi talari verso il momento perfetto, la coincidenza del gesto col fine, e dunque con la fine della partita: quando la vertigine che nasce dalla visione dell’abisso in cui può cadere l’anima del mondo sospinge ad oltrepassare ciò che separa da «quelle cose» per giungere pericolosamente al cospetto del Sacro, quella sorta di Aleph borghesiano in cui gorgogliano sincronicamente tutti i tempi ed i luoghi della creazione; come dice Hesse: «Noi non nascondiamo il pericolo che corre l’anima dell’umanità, l’abisso cui è vicina. Ma neppure possiamo nascondere che crediamo alla sua immortalità».
L’intento di cui parla Hesse nel descrivere l’attitudine dei suoi Magister, è dunque un’inclinazione dello sguardo e della sua volontà, che cercano la visione della «trama [armonia] nascosta» in ogni manifestazione della realtà. Lo sviluppo consapevole dello «sguardo dell’anima» che «rimette in gioco», che prova ad assumersi tutti i rischi della risposta all’enigma dell’uomo e del Mondo.
Bene lo aveva capito Gustav Jung il cui allievo, Joseph Lang, fu per molti anni psicanalista di Hesse: «L’abbandonarsi del Maestro Eckart è diventato per me la chiave che dischiude la porta verso la via: bisogna essere psichicamente in grado di lasciar accadere […]. Per cominciare, esso consiste soltanto nell’osservare oggettivamente come si sviluppi un qualunque frammento di fantasia […]. La via non è priva di pericoli. Ogni bene ha un prezzo, e lo sviluppo della personalità è tra le cose più preziose. Si tratta di dire di si a se stessi, di porsi a se stessi come il compito più grave, di essere sempre consapevoli di ogni azione, e di tenere ciò sempre ben davanti agli occhi in tutti i suoi aspetti problematici: davvero un compito che richiede un impegno totale […]. Si tronca qui bruscamente il flirt estetico o intellettuale con la vita ed il destino. L’accedere ad una coscienza superiore ci priva di ogni copertura alle spalle e di ogni sicurezza. L’individuo deve impegnarsi totalmente […] e solo la sua integrità può essergli garanzia che la sua via non si tramuti in una assurda avventura».
Questa definizione dell’intento come «disciplina» del «porsi a se stessi come il compito più grave», Jung la articola nell’introduzione al Segreto del fiore d’oro, trattato di alchimia taoista cinese; nella sua biografia dirà, al proposito, che è stata l’Opera ad introdurlo allo studio dei simboli alchemici come descrizioni della totalità del Sé.
L’enfasi posta da Jung nel rapporto tra volontà, consapevolezza e azione e, ancor più, il particolare rapporto che ne descrive l’intreccio con la percezione profonda, archetipica, delle cose – che ritroveremo anche in Corbin – delinea non solo l’obiettivo da raggiungere, i suoi rischi ed opportunità, ma altresì l’inclinazione necessaria per lasciarsi cogliere dall’Invisibile, lo scopo del Gioco delle perle di vetro.
La parola intento contiene dunque una segnatura etimologica: svela la tensione nella volontà di uno sguardo che cerca il luogo della visione tra consapevolezza e inconscio, tra Io e Sé, tra Visibile ed Invisibile; un ponte gettato dall’anima sulla necessità di cogliere la sua stessa «trama [armonia] nascosta» per ricongiungerla con «quella manifesta», secondo le parole di Eraclito. Un tragitto ardito e impervio, che si tende tra Cosmo e Caos.
E dunque, anche se le origini del Gioco sono rinchiuse nel passato, ed anzi «la sua stessa esistenza attuale non è dimostrabile né probabile» come avverte Albertus Secundus, il Magister che ne ha, forse, codificato le ultime regole, la sua stessa ipotesi ha saputo infondere all’epoca una tale carica di autenticità che esso, non importa se esistente o virtuale, ha inciso sulla realtà effettuale avvicinando la società tutta «un poco alla possibilità dell’essere e del rinascere».
Il Gioco delle perle produce così anche nuovi simboli e questo è segno inequivoco di grande creatività e profondità spirituale. Ed infatti, per la mente umana, concepire un nuovo simbolo equivale alla capacità della Natura di creare un nuovo cromosoma che sia funzionale all’evoluzione e non meramente mostruoso o neoplastico. E dunque il Gioco crea simboli e non loghi, genera soglie attraverso le quali si entra in reami sconosciuti ai non iniziati e che, per i giocatori, rappresentano la ricombinazione ideale di tutti i saperi.

 

I Pellegrini d’Oriente
La finalità, mistica e politica al tempo stesso, spiega perché la supposta versione attuale, quella giocata dal Magister Ludi Josef Knecht (che in tedesco significa servo), sia stata perfezionata dai Pellegrini di Oriente: confraternita che troviamo nell’omonimo romanzo di Hesse. Sono personaggi diversi tra loro, ma accomunati da questa avventura orientale che li porterà a compire un pellegrinaggio verso la profondità di se stessi. «La nostra meta infatti non era soltanto il Paese del Levante, o meglio il nostro Oriente non era soltanto un Paese e un’entità geografica, ma era la patria e la giovinezza dell’anima, era il Dappertutto e il Nessun-luogo, era l’unificazione di tutti i tempi». Tra i pellegrini spiccano il musicista H.H., che lascerà il pellegrinaggio esattamente come il Magister lascerà il Gioco delle perle di vetro, e il pittore Paul Klee, quello dell’emblematico Angelus Novus tanto caro a Walter Benjamin. Anche qui, dunque, torna l’immagine delle rovine della Storia e di un futuro incerto verso il quale il vento dei tempi nuovi sembra attirare sia l’angelo che i giocatori delle perle di vetro.
Il Gioco si configura, così, con questi ascendenti, come una forma esplicita ma al tempo stesso esoterica di apocatastasi, di Salvezza universale che, mercé la casta dei giocatori, può estendere la sua luce su tutta l’umanità oscurata dal ritiro dello Spirito. Il Gioco delle perle viene allora descritto come una sorta di immagine speculare del destino del XX secolo; lo stesso nel quale si riflette L’uomo senza qualità di Musil per il quale: «A poco a poco l’uomo probabile e la vita probabile incominciavano ad occupare il posto dell’uomo vero e della vita vera che erano pura immaginazione e illusione».

 

La morte del Magister Ludi
Il romanzo si chiude con la morte del Magister Ludi Josef Knecht nel lago di Belpunt. Il Magister segue nel lago montano il suo giovane allievo, figlio dell’amico più caro, in una sfida che si rivela esiziale per il vecchio maestro e fatale per il suo discepolo. Josef Knecht si presenta al suo destino con uno spirito in apparenza opposto: non sembra voler morire, ma il contatto con l’acqua fredda, glaciale, il tuffo pericoloso per lo stato della sua precaria salute fisica, ma soprattutto della sua anima gravata dal sospetto che il Gioco si stia orami svuotando della sua essenza sacra per diventare un banale passatempo intellettuale, trasformano il senso del gesto offrendogli l’ultima sfida esistenziale, alla quale egli non si sottrarrà perché convinto, alla luce dell’istante, di star giocando nella maniera più vera ed autentica se stesso come perla di vetro.
Il Magister affronterà dunque la lama gelata dell’acqua come in un duello: sarà la morte eroica il coronamento della sua carriera; una morte acquatica che viene a porgli sul capo la corona di alloro della sfida impossibile, quella che nessuno può vincere, ma che premia con la gloria eterna chi la affronta consapevolmente.
Il Magister, infatti, non si lascia andare alla morte, ma le resiste sino alla fine; né tantomeno le si sottrae uscendo dall’acqua: capisce che la posta in gioco è il passaggio alla maturità del discepolo; sente così di ripagare finalmente, e nel più estremo dei modi, quel legame con l’amico che, in gioventù, gli aveva dato la possibilità di formarsi e diventare Magister.
Qui il tuffo è realmente un atto eroico, di una fisicità arcaica, come la sfida che rappresenta: il Magister non è preparato ma, proprio per questo, la affronta: è l’azzardo del giocatore che pone in palio la sua vita. L’ultimo tuffo porterà a compimento così la sua ricerca: questa è l’intuizione che l’atra mano della morte trasmette alla consapevolezza oramai intorpidita dal gelo, risvegliando in lui l’antico giocatore che tanto si era appassionato alle perle di vetro.
«Quando era uscito di casa, Knecht non aveva avuto nessuna intenzione di fare il bagno e di nuotare perché aveva troppo freddo e dopo il malessere notturno non si sentiva molto bene. Ora, al tepore del sole, eccitato da ciò che aveva visto, invitato amichevolmente dall’allievo, pensò che il rischio non era tanto grave. Soprattutto però temeva che, quanto l’ora mattutina aveva avviato e promesso potesse svanire e andare perduto, se avesse abbandonato il giovane e l’avesse deluso rifiutando con la fredda ragionevolezza dell’adulto un saggio di energia. Lo sconsigliava, è vero, il senso di incertezza e di debolezza che gli aveva lasciato il rapido viaggio in montagna, ma forse quel malessere lo si poteva rapidamente superare con un atto di forza e con un gesto impetuoso».
Il tuffo è qui più metaforico che mai; trapassa rapidamente dal «gesto impetuoso» che scaccia il malessere, all’abbraccio della morte che compie un destino. Questa Immagine di Hesse racchiude dunque, come ogni tuffo, un duplice significato. L’inizio del gesto, la sua motivazione, il suo incipit, la sua stessa ragione, è raccogliere la sfida per non deludere l’allievo. Qui siamo nel campo di quella «Immaginazione materiale» del tuffo che Bachelard chiama «acqua violenta». La valenza del tuffo nell’«acqua violenta», pericolosa, come la avverte giustamente il Magister, è già quella di un gesto di sfida per un elemento nel quale «la vittoria è più rara» poiché «il nuotatore conquista un elemento molto estraneo alla sua natura».
Ed è certamente così per il Magister, che è uomo di montagna abituato a guardare l’acqua da lontano, come riflesso terrestre del cielo, sotto forma di laghetti tranquilli ma, allo stesso tempo, capace di coglierne l’essenza matriciale, il suo significato creatore. Per il Magister l’acqua è un elemento sacro, ed ogni tuffo un battesimo, ogni bracciata un’offerta alle divinità marine, ogni emersione una rinascita. Ecco perché, arrivato il momento topico, egli non si sottrae alla sfida lanciatagli dall’allievo.
E dunque, «l’eroe delle acque violente», come lo chiama Swinburne, non è solo colui che affronta l’acqua tempestosa ed i marosi contrari, ma anche colui il quale avverte l’elemento come estraneo e periglioso in quel preciso momento. Il tuffo è, per l’immaginazione materiale di questi soggetti, un gesto eroico, il gesto eroico attraverso il quale si esprime l’assoluto: «Come esprimere meglio che le cose, gli oggetti, le forme, tutto il variopinto pittoresco della natura si disperdono, si cancellano quando echeggia il richiamo dell’elemento? Il richiamo dell’acqua reclama, in un certo senso, un dono totale, un dono intimo. L’acqua vuole un abitante, chiama a sé come una patria».
In altre parole la fine non può essere che il tuffo in questa acqua: «Toltosi il leggero accappatoio respirò profondamente e si buttò in acqua nello stesso punto in cui si era tuffato l’allievo. Il lago… lo agguantò col gelo di una tagliente ostilità. Egli si aspettava un gran brivido, ma non quel freddo così glaciale che lo avvolse come un mare in fiamme e dopo una prima vampata cominciò a penetrargli le ossa».
Ecco che il Magister comincia subitaneamente ad intuire che quello sarà il suo ultimo tuffo, il gesto attraverso il quale coronerà la sua carriera, non solo di supremo maestro nel Gioco delle perle di vetro, ma soprattutto di precettore del ragazzo. Il tuffo finale nelle acque in cui troverà la morte, per la dinamica stessa dell’episodio, altro non è che la lectio magistralis impartita al giovane che riceve, dalla morte esemplare del suo mentore, l’iniziazione.
«Di fatto il tuffo fa rivivere, più di ogni altro avvenimento fisico, gli echi dell’iniziazione pericolosa, di una iniziazione ostile. Rappresenta l’unica Immagine esatta, ragionevole, l’unica che si possa vivere, del salto nell’ignoto. Non esistono altri salti reali che siano nell’ignoto. Il salto nell’ignoto è un salto nell’acqua», ci ricorda Bachelard.
«Dopo il tuffo era riaffiorato subito, ed aveva veduto davanti a sé Tito che nuotava con grande vantaggio ma, sentendosi aspramente incalzato dal gelo ostile, si illuse ancora di lottare per diminuire la distanza, per raggiungere la meta della gara, per rispetto all’amicizia, per l’anima del ragazzo, quando invece lottava già con la morte che gli aveva dato lo sgambetto e lo stringeva tra le braccia. Facendo appello alle sue forze vi resistette finché il cuore continuò a battere. Il giovane nuotatore si era voltato più volte, ed aveva visto con soddisfazione che il Magister lo aveva seguito nell’acqua. Ora guardò di nuovo e non vedendolo si impensierì […]. Stordito toccò terra finalmente […] sedette per terra inebetito, fissando l’acqua il cui verde azzurro lo guardava ora vuoto e maligno […]. E mentre, nonostante le obiezioni, si sentiva colpevole, lo prese come un sacro brivido il presentimento che quella colpa avrebbe trasformato lui stesso e la sua vita e preteso da lui cose molto più grandi di quante fino allora avesse mai preteso da se stesso».

 

Il Gioco delle perle di vetro
Ma, forse, per comprendere, al di la delle sue oscure regole, il Gioco delle perle di vetro, dobbiamo andare con la memora ai nostri infantili giochi con le perle di vetro, con quelle biglie colorate che racchiudevano al loro interno una spirale multicolore che ci agitava la fantasia oltre ogni immaginazione. Compresi nel gioco eravamo tutti Magister Ludi: il tempo cronologico scompariva per essere assorbito da quelle spirali multicolori che ci proiettavano in un’altra dimensione, in una realtà separata dove l’unica strada da seguire era quella tracciata dalla traiettoria delle biglie opalescenti. Come pure vale la pena ricordare che, sino agli anni Cinquanta del secolo scorso, esistevano in commercio alcune bottiglie di gazzosa che erano chiuse proprio da una biglia di vetro: per aprire la bottiglia bisognava spingere la pallina verso il basso e far uscire così il gas che la imprigionava contro il collo stretto. Quelle bollicine, liberate dallo sprofondamento della biglia erano l’immagine stessa della creazione, del Big Bang; dopo non restava che liberare anche la sfera di vetro, ed il gioco ricominciava.

bottiglie-gazzosa

 

 

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