Hypnos e Thanatos: gli angeli della deposizione, da Alias 26-3-2016

Hypnos e Thanatos, il Sonno e la Morte: i «gemelli veloci» che Omero chiama in gioco nella deposizione dell’eroe Sarpendonte nel canto XVI dell’Iliade. In questo episodio omerico il figlio Laodamia, della stirpe di Bellerofonte, e di Zeus, dunque fratellastro di Elena, è ferito a morte da Patroclo sotto le mura di Troia; sarà loro il compito di sollevarne il corpo, pulirlo dal sangue, avvolgerlo nelle bende ed infine trasportarlo nella terra dei padri.

Indistinguibili nell’aspetto esteriore, entrambi alati, a volte barbati altre imberbi, i due gemelli sono però diversi nei particolari simbolici che li raffigurano insieme, in particolare nella loro postura iconografica: mentre Hypnos non sembra avere tratti caratteristici, suo fratello viene raffigurato spesso con una torcia capovolta, simbolo della vita che si è spenta, o come un bel giovane dai piedi intrecciati, rimando alla posizione in cui venivano sepolti i morti nell’antica Grecia.

Nelle teogonie classiche il Sonno e la Morte sono parti di una relazione intrinsecamente complementare; è questo a determinare in essenza il mitologema che li accomuna: stati speculari che trapassano l’uno nell’altra. Entrambi, infatti, nascono dalla Notte, Nyx, e dalla Tenebra infera, l’Erebo. E dunque, seppure generati della combinazione delle stesse Potenze – la notte che porta i sogni e la esiziale tenebra eterna – le esprimono in proporzioni differenti, il che li rende speculari sì, ma non per questo identici; anzi. Mentre il Sonno dimora nell’antro che si affaccia sull’Ade in prossimità del fiume Lethe, in cui scorrono eterne le acque dell’oblio, la Morte abita invece il suo tenebroso interno.

È in questo luogo inospitale che Thanatos fissa la sua dimora; ed in esso, non solo trae le anime, ma non permette loro di uscirne; tranne l’eccezione di Ercole che lo lega con una catena di diamanti per recuperare Alcesti, e la temporanea sospensione della sua micidiale ed inesausta attività ad opera di uno stratagemma concepito da Sisifo, che lo ubriaca.
La loro specularità è dunque sostanziale; il Sonno, insieme ai suoi molteplici figli, tra cui i sogni, pertiene allo stato dell’essere: entra ed esce dai corpi, «senza fare o subire alcuna violenza» – come afferma Platone riferendosi al daimon Eros, che con esso fa mostra di un’affinità evidente – ed, al contempo, permette ai corpi di uscire ed entrare in lui.

Al contrario, il suo gemello senza figli, «dal cuore di ferro e dalle viscere di bronzo», pertiene invece allo stato del non essere: opposto per ciò anche ad Eros, entra solamente e, con questo atto, separa l’anima eterna dal corpo mortale. Eppure entrambi, come vedremo sul Cratere di Eufronio, sono indispensabili al gesto della deposizione, che dunque simboleggia il passaggio dal sonno, con le sua varie fasi, alla morte.

Il sonno ed il suo sognare

A differenza degli antichi Egizi, la Grecia classica non ammetteva che potesse esserci vita alcuna nel «sonno profondo», come definivano la morte gli abitanti della terra nilotica. Per gli Egiziani l’essere aveva tre corpi: ogni volta che ci si addormentava, il Ka, il «corpo di sogno», si librava nell’etere per poi ritornare, ed unirsi, al «corpo mortale» nello stato di veglia.
Ma la veglia non rappresentava che il pallido riflesso della vera vita: quella nel Regno dei Morti, in cui si era immortali, dato che solamente un morto è tale in quanto non può più morire. Per questo il Ba, il «corpo del sonno profondo», imbalsamato nella mummia – involucro necrico di preservazione per questo stato particolare – non era solamente una forma estrema di esistenza, ma l’essenza stessa della vita immortale.

Nell’antico Egitto è dunque la morte a specchiarsi nel sonno. La morte non è che l’inizio: si «nasce alla morte», alla sua «immensità indefinita». Da qui il senso del mistero che ancora aleggia su queste credenze.

Per la Grecia classica, al contrario, il sonno portatore di sogni è una componente determinante della vita; possiamo dire che ne orienta lo svolgimento. Nei tempi antichi, incubare sogni – dormire cioè in un luogo ritenuto sacro – significava entrare in contatto diretto con il numinoso, con l’Invisibile.
Tutta la biografia degli eroi omerici è governata da sogni e visioni, apparizioni oniriche di ombre che li visitano e li guidano: «Tu dormi, Atride», dice il sogno nel II libro dell’Iliade, «Tu dormi, Achille», dice lo spettro di Patroclo.

L’atē, lo stato d’animo che spesso domina l’agire dei guerrieri iliaci, altro non è che un temporaneo annebbiarsi della coscienza lucida; una forma di onirismo che toglie il senno, ispirato dagli stessi Dei: conduce Agamennone a rifarsi per la perdita della concubina portando via ad Achille la sua.
D’altra parte i Greci non parlavano mai di avere o fare un sogno, ma sempre di vederlo. Ancora, non solo il sogno visita il sognatore, ma «gli sta sopra», dice Erodoto; «stava sopra la sua testa» canta addirittura Omero, a significare la potestà onirica di influenzare, profondamente, la realtà soggettiva del dormiente.

Sul Cratere di Eufronio, capolavoro attico con figure in rosso del V secolo a.C., attualmente conservato presso il Museo di Villa Giulia a Roma, la scena della deposizione di Sarpedonte è magistralmente raffigurata. Qui i due gemelli veloci vengono individuati scrivendo il loro nome ma, ecco l’arcano, quello di Thanatos è scritto al contrario, come se fosse riflesso nell’oggetto che, elettivamente, permette di coglierne l’isotropa simiglianza col gemello Hypnos: lo specchio.

Qui è dunque la Morte a fare da specchio al Sonno, perché è quest’ultimo che interagisce con la vita; è la vita stessa, mentre la morte rappresenta il suo speculare contrario: la vita si specchia nella morte.
Non basta, allora, solo il nome per simboleggiare Thanatos; per portare ad effetto il suo significato essenziale di nomen omen, lo si deve vedere come riflesso su di una superfice che rimanda al vivente l’immagine della sua ineludibile condizione futura: Thanatos è lo specchio del destino di Hypnos, cioè di colui che al momento dorme ma che, inevitabilmente, un giorno passerà dal sonno alla morte.

Passano i secoli e vediamo come i due gemelli, che anche sul cratere sono ritratti con le ali, si ritrovano sia nella tradizione ebraica che in quella filosofica greca, nella funzione di Spiriti psicagoghi, cioè di Angeli che hanno il compito di accompagnare l’anima all’ultimo destino. La tradizione rabbinica ci dice che possono entrare in cielo soltanto quelli la cui anima è portata da questi particolari messaggeri. Nella Parabola del povero Lazzaro e del ricco Epulone è Gesù stesso che gli attribuisce questa funzione: “Il mendicante morì e fu portato dagli Angeli nel seno di Abramo” (Lc. 16, 22). E ancora, esattamente come fanno i gemelli col corpo di Sarpedonte, nella lettura apocalittica giudaico-cristiana dei primi secoli si parla di angeli psycopomnes che coprono il corpo «con lini preziosi e lo ungono con olio fragrante, poi lo mettono in una grotta rocciosa, dentro una fossa scavata e costruita per lui. Ivi resterà fino alla resurrezione finale».

Il “Compianto”.

E così vediamo che, nel canto dell’Iliade come nella sua raffigurazione sul Cratere di Eufronio, i due gemelli depongono Sarpedonte traendolo dal campo di battaglia per depositarlo nel suo sacello in Lidia. Il gesto è dunque l’archetipo di ogni deposizione dell’eroe e, nel corso dei secoli, verrà ripetuto innumerevoli volte attingendo proprio da questo schema e con gli stessi personaggi simbolici: il Sonno e la Morte. Saranno, infatti, gli stessi personaggi, seppur adattati alla nuova narrazione religiosa, che ricompariranno sia nella cosiddetta figura del «Compianto», cioè nella deposizione del Cristo Morto sulla croce e nella sua traslazione verso il sepolcro, sia in quella che è la sua controparte femminile, cioè la Koimesis o Dormitio Verginis.

In particolare il Compianto medioevale e rinascimentale, i periodi in cui questa immagine viene dipinta più frequentemente e con più attinenza all’episodio evangelico, attinge alle fonti letterarie del Vangelo apocrifo di Nicodemo, detto anche Acta Pilati, nonché ai sermoni di Giorgio di Nicomedia del X secolo. Le prime raffigurazioni di questa scena vengono però dalle miniature bizantine del IX secolo, in cui inizialmente compaiono solo due personaggi, oltre al Cristo Morto: Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, due fratelli membri del Sinedrio che, come vedremo, altro non sono che le trasposizioni in chiave cristiana di Hypnos e Thanatos.

In più, se prendiamo le scene miniate che illustrano le omelie di Gregorio Nazianzeno (329-390), Padre e Dottore della Chiesa nonché maestro di San Girolamo, dedicate all’Imperatore bizantino Basilio I – attualmente conservate presso la Biblioteca Nazionale di Francia – vediamo chiaramente come le posture delle figure di Nicodemo e Giuseppe di Arimatea siano derivate da quelle di Hypnos e Thantos sul Cratere: immobili nell’atto di sorreggere il Cristo Morto mentre San Giuseppe, come Hermes, sta ritto sulla scena nel gesto di dare ordini ai due.
In questa immobilità, in questa ieratica staticità delle figure bizantine, possiamo allora ritrovare il filo dell’immagine originaria presente nel canto omerico e ripresa dal ceramografo Eufronio, che per la prima volta ci mostra la deposizione di un essere divino. Il cosiddetto Threnos – la figura composta dai quattro personaggi visti nel loro insieme – è dunque originato da questa sospensione dell’azione, da questa pausa quasi meditativa che invita lo spettatore ad immedesimarsi nell’attimo del passaggio dalla vita alla morte.

Ma certo la postura delle figure, ripresa poi in innumerevoli dipinti con l’inserimento della Vergine e di altri personaggi di contorno, non basta a verificare il passaggio dall’archetipo figurativo greco, della Pathosformel della deposizione come avrebbe detto Aby Warburg, al suo omologo bizantino. E allora, per far combaciare ulteriormente le due rappresentazioni dobbiamo chiederci: chi rappresenta Thanatos e chi Hypnos in chiave cristiana? Ebbene se guardiamo alla storia narrata dai Vangeli ci accorgiamo immediatamente che Giuseppe di Arimatea è Thanatos mentre Nicodemo è Hypnos, perché?

Giuseppe di Arimatea e Nicodemo.

Giuseppe di Arimatea è il membro del Sinedrio che annuncerà a Pilato la morte del Cristo e così rende possibile che egli venga deposto dalla Croce. Qui abbiamo già un attributo chiaro che lo identifica con Thanatos: è lui che stende la dichiarazione di morte di Gesù di Nazareth. Dichiarare deceduta una persona, specie sottoposta al supplizio della croce, non era un compito facile. Bisognava avere una certa esperienza empirica di come si presentava un corpo morto in quel modo, poiché al tempo gli strumenti diagnostici non erano esistenti. E dunque chi meglio di Thanatos riconosce, per così dire, la sua opera? Ma non è tutto. Giuseppe di Arimatea ha anche i tratti caratteristici di un’altra divinità legata alla morte: Anubis. Infatti gli attributi della divinità dei morti egiziana sono: «Colui che presiede l’imbalsamazione», «Colui che è sulla montagna», intendendo la montagna dove erano scavate le tombe, ed infine «Colui che è nelle bende» intendendo non solo le bende funerarie ma la loro simbologia resurrezionale. Ed è proprio Giuseppe di Arimatea che metterà a disposizione del Corpus Cristi sia gli unguenti per lavarlo, come avviene per Sarpedonte, sia le bende del sudario sia, infine, la sua stessa tomba scavata appunto sul fianco di una montagna. Ultimo, ma non certo per importanza, il transito della figura archetipica da Thanatos a Giuseppe di Arimatea avviene anche attraverso il ciclo arturiano del Santo Graal, in cui il personaggio evangelico viene individuato come colui il quale trasla la coppa contenete il sangue di Cristo in Europa, prova di quella relazione tra morte e resurrezione già attribuita alla figura di Anubis.

Dal lato opposto troviamo invece Nicodemo-Hypnos. Anche qui l’archetipo muta nella forma mantenendo così intatta la sostanza. Se guardiamo alla sua figura in chiave simbolica ci accorgiamo che essa è tutta in un susseguirsi di sogni; Nicodemo, infatti, vive, per così dire, una vita che è sogno, come avrebbe detto Pedro Calderón de la Barca. I sogni che marcano la sua figura, tutti inerenti la deposizione di Cristo, sono certamente tre. Nel primo si racconta che Nicodemo si prefisse il compito di riprodurre nel legno l’immagine di Gesù Morto così come egli se lo ricordava. Dopo aver scolpito il corpo si arrestò di fronte alla difficoltà di riprodurne il Volto. Dopo lunga preghiera, cadde addormentato; al suo risveglio ebbe la sorpresa di vedere l’opera compiuta da mano angelica.

Qui appare evidente la relazione tra il Volto del Salvatore e la sua intrinseca natura divina, come magistralmente ci dice Pavel Florenskij nel suo saggio sull’iconostasi Le Porte Regali. Per questo studioso delle icone è il Volto che racchiude l’essenza numinosa, ed in particolare lo sguardo, che egli definisce come vero e proprio «simbolo ontologico». Un simbolo è sempre «più di ciò che appare» e dunque l’Immagine evocata in sogno da Nicodemo corrisponde al Ba, al «corpo del sonno profondo» del Cristo. Dice ancora Florenskij che certe Immagini che separano il sogno dalla realtà, separano il mondo visibile da quello invisibile, ed in tal modo congiungono i due mondi. Il sogno visionario del Volto, si badi bene del Volto come Nicodemo lo ricordava, non di una semplice riproduzione, cioè di una mera ed imperfetta maschera funeraria, diviene così il limite comune alla serie delle situazioni terrene e alla serie delle esperienze celesti. Nicodemo entra dunque, attraverso il suo sonno profetico, in diretto contatto col suo stesso volto attraverso quello di Dio: si scopre come essere nell’infinito Essere; questa è «l’abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile», conclude Florenskij. Influenzato a vita dal suo primo sonno estatico Nicodemo, prossimo a morire, affida l’opera a Isacar, uomo giusto e timorato di Dio. Di generazione in generazione essa fu segretamente custodita e venerata. Circa seicento anni dopo, nei pressi del luogo dove l’opera era custodita, giunse il Vescovo Gualfredo, al quale apparve in sogno lo stesso angelo scultore che gliene svelò la presenza.

La scultura fu collocata allora su una barca affidata alla Divina Provvidenza perché la facesse giungere in luogo degno. Nella barca furono poste anche due ampolle contenenti il sangue di Cristo raccolto da Giuseppe d’Arimatea con Nicodemo. Dopo un lungo viaggio la barca giunse nei pressi di Luni. A capo della diocesi di Lucca vi era allora un Vescovo noto per aver traslato nella città i corpi di molti santi, al quale apparve in sogno l’angelo che gli suggerì di andare a Luni a recuperare la barca ed il suo prezioso carico. E dunque la catena di sogni termina con la traslazione della reliquia in un luogo protetto dove simbolicamente si compie il sogno di Nicodemo.

La Dormizione di Maria

Ma la figura che chiude il cerchio archetipico, che dunque essenzialmente assomma e sussume entrambi gli aspetti della Deposizione, fonde e confonde il Sonno e la Morte riportandole all’unità originaria, è certamente quella di Maria nell’atto della sua Koimesis, la «Dormizione». La Madonna altro non è, nella raffigurazione cristiana, che l’ultima ipostasi della Grande Madre, della Grande Potnia mediterranea, dell’unica Dea totipotente che dominava la religiosità arcaica prima dell’avvento delle divinità legate al patriarcato. È lei che crea tutto, che è tutto.
Tra le sue creature ci sono i primi Dei e le prime Potenze, i Titani ed Eros protogeno, la Notte ed Erebo – dai quali vengono poi generati i «gemelli veloci» – via via enumerando sino a Gesù di Nazareth. Tutto è tutti sono allora suoi figli e, al tempo stesso, sue manifestazioni. E dunque neanche la spiccata misoginia ecclesiastica ha potuto soffocare alla radice la potente evidenza arcaica, l’intuizione profonda, sacrale, che la Creazione è generata e curata da una Essere dalle qualità femminili.

Il corrispettivo di questa ascendenza, nell’iconografia cristiana, è certamente quello della Madonna della Misericordia che, sotto il suo vasto mantello, ospita tutto il Creato, morti inclusi. Perciò Maria non può morire, ed alla fine della sua esistenza terrena si addormenta e viene assunta in cielo in questo stato peculiare, unico, come si conviene alla Madre di Dio, a colei che lo ha generato, partorito e curato; non solo, ma che lo ha resuscitato, poiché sappiamo che senza il suo sguardo amorevole sul corpo morto del Figlio, senza la carica resurrezionale che emana dal suo Volto intenso ed estatico, il Cristo non sarebbe mai risorto, non avrebbe avuto motivo di farlo.
Come la Basilinna durante le Grandi Dionisiache si accoppia con un simulacro del dio per rigeneralo e consentirgli di riprendere il ciclo della vita indistruttibile, così Maria fa rinascere la vita eterna dalla morte del Cristo. L’erotismo che traspare nei suoi gesti altro non è che la quintessenza della sua stessa definizione secondo Georges Bataille: portare la vita sin dentro la morte.
«Ti sei addormentata ma non per morire, assunta, ma non abbandoni il genere umano». Così recita il testo di un panegirico sulla Dormizione del secolo VIII. «Colei che diviene madre partorendo, rimane vergine incorrotta, perché Dio era Colui che veniva generato; così nella tua Dormizione vitale, tu sola a buon diritto, rivesti la gloria della persona completa di anima e di corpo» dice Teodoro Studita, giustificando al contempo il dogma della Immacolata Concezione senza per questo dover rinnegare la forza numinosa dell’archetipo precristiano. Non a caso la Festa della Dormizione della Madre di Dio, celebrata il 15 agosto, che risale ai secoli VI e VII, ed è originariamente legata alla comunità di Gerusalemme, veniva preparata ed introdotta dall’Ufficio della cosiddetta «Paraclisis», cioè chiedere l’intercessione della Grande Madre che tutto può perché tutto è.
E così nel suo sonno eterno che non è né morte né sonno, ma eterno sogno, Maria di Nazareth sogna se stessa, sogna il Mondo.

 

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