La notizia di alcuni casi in Italia e Gran Bretagna di persone affette da Ziga visus, seppur provenienti da aree già colpite, hanno sollevato l’interesse degli ambienti medici continentali in relazione alle possibili conseguenze di una trasmigrazione della malattia sul continente europeo. In realtà la folgorante invasione epidemiologica dello Ziga virus sembra al momento inarrestabile, essendo progressivamente migrato dall’originaria culla africana, ove venne tipizzato già verso la fine degli anni Quaranta del secolo scorso, prima verso l’Asia e recentemente verso l’America latina, via via risalendo fulmineamente, durante l’anno scorso, il Centro America verso il Nord del continente. Oggi la sua penetrazione accertata si attesta in Messico ma se non diminuirà di virulenza è pensabile che possa raggiungere gli USA entro l’anno corrente. L’origine africana della patologia ne giustifica in primis il nome: Ziga, infatti, è un toponimo che si riferisce alla foresta ugandese dove venne rintracciato la prima volta nel sangue delle scimmie di Macacus Rhesus, le stesse che, probabilmente, hanno incubata sia quello dell’Aids che di altre patologie virali. Lo Ziga virus appartiene, però, ad una famiglia fortunatamente diversa da quello della Sindrome da Immunodeficienza Acquisita, essendo del tipo Flavivirus, trasmesso da vettori quali l’Aedes Aegipti o la zanzara tigre, e forse anche per via sessuale o sanguigna diretta. Già quest’ultimo sospetto, e l’affermazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che lo Ziga “colonizzerà” ogni luogo sulla terra dove sono presenti i suoi vettori, cioè potenzialmente tutto il mondo tranne i Poli, ha destato un allarme crescente nei responsabili della sanità pubblica mondiale. Al momento, infatti, non esistono vaccini e la cura è puramente sintomatica, anche perché sino ad ora la bassa espressività sintomatologica del microorganismo non preoccupava più di tanto gli epidemiologi. In altre parole i segni sono paragonabili a quelli di una comune influenza e raramente hanno sequele apprezzabili. Si tratta di mal di testa, dolori alle ossa, spesso congiuntiviti ed eruzioni cutanee, ma tutto ciò si palese solo su un caso su quattro; il resto rimane asintomatico rendendo la malattia molto subdola. In sintesi, anche se si tratta di un virus molto più simile a quello della Dengue, della febbre gialla, o di altre malattie emolitiche, lo Ziga risulta clinicamente molto meno aggressivo e con una mortalità molto bassa se non rara. E allora qual è il problema? Il punto è che i recenti studi epidemiologici, dovuti al suo sbarcare in Brasile l’anno scorso, ed al rapido risalire il continente americano con la concreta possibilità che si installi permanentemente anche negli USA e Canada, oltre che in Europa, sono in realtà legate ad una supposta correlazione tra infezione da Ziga virus e microcefalia, una deformazione del volume del cervello che colpisce il feto in fase di gestazione e produce danni gravissimi ai nascituri generando un handicap permanente che condiziona negativamente tutta la loro vita. Ci sarebbero inoltre anche sospetti legati alla malattia di Guillan-Barre, di tipo autoimmune, che finisce col considerare il tessuto nervoso come nemico e dunque produrre paralisi neurologiche anche gravissime. Questo sospetto è nato dagli studi condotti in Brasile dove, solo l’anno scorso, nel maggio, ci sono stai ben 1,5 milioni di casi, dato che la popolazione continentale non ha ancora sviluppato nessun tipo, anche se poco efficace, di immunità. Ebbene le autorità sanitarie brasiliane, ma anche quelle dei Paesi vicini, come la Colombia, l’Equador, El Salvador e la Jamaica, supportate nel loro giudizio dalla PAHO ( Pan American Health Organzation) hanno cominciato a rilevare una possibile relazione tra la malattia delle donne in cinta ed i casi di deformazione celebrale dei nascituri che sono aumentati esponenzialmente dopo l’esposizione del Continente al virus andando, solo in Brasile, dai 135 come media sino al 2014, ai 3530 del 2015. Il sospetto è talmente tanto fondato, anche se non ancora definitivamente accertato, che i responsabili della sanità pubblica brasiliana hanno consigliato alle donne che hanno avuto la malattia o lo sospettano, di rinunciare per un certo tempo alla gravidanza, al fine di non sottoporre il feto al rischio di microcefalia, mentre la autorità statunitensi hanno sconsigliato alle donne in gravidanza di viaggiare nelle zone contagiate dal virus, cioè potenzialmente in tutto il Continente latino americano. Dunque un altro fronte si apre: per la prevenzione, la ricerca, la lotta a questa malattia che, proprio perché così difficile da diagnosticare, è già stata definita dagli epidemiologi come un “lupo travestito da agnello”.