L’eurozona in leggera ripresa economica, attivata sulle fragili basi di lavori precari, ripresa dei consumi in Germania e del basso prezzo del petrolio, non sembra al momento animata dalla volontà degli stati comunitari di rilanciare l’idea di una unione politica che sembra oramai perduta all’orizzonte della crescente rinazionalizzazione delle dinamiche comunitarie a guida tedesca. La situazione greca ne è un esempio lampante, in cui la vittoria di Syriza e le sue proposte di uscire da sinistra da una crisi che prima ancora che economica è sociale, sembrano non aver scalfito i dogmi monetaristi imperanti.
E dunque, stretta tra il declino politico economico degli Usa con le sue spinte identitarie anti russe, il montante protagonismo della Cina e degli altri BRICS, e l’arco delle crisi di matrice integralista che la attanagliano sulla sponda sud del Meditterraneo, l’Europa sembra non avere altro spazio di manovra che quello di diventare subalterna alla penetrazione delle merci e dei servizi d’oltre atlantico, negoziando con voce debolissima e opaca un trattato di libero scambio che si configura come un patto leonino. Eppure, se risaliamo ad una situazione per certi versi simile, la guerra fredda, ci accorgiamo che proprio la politica estera comunitaria può rappresentare una risposta organica sia alla crisi identitaria europea, sia a quella economica. Alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, infatti, la contrapposizione tra i due blocchi era in equilibrio dinamico e la “vittoria” statunitense non era affatto scontata, anzi.
Basti ricordare alcuni episodi che determinarono, per un certo periodo, una oggettiva supremazia geopolitica sovietica: in rapida successione in quegli anni assistiamo alla vittoria del Fronte Sandinista in Nicaragua, all’entrata nel campo socialista delle ex colonie portoghesi, Angola, Mozambico, Guinea Bissau e Sao Tomè e Principe, alla sconfitta americana in Vietnam ed alla rivoluzione iraniana. È in questa temperie che l’allora Commissario all’agricoltura Edgard Pisani, francese, produce sotto suggerimento del socialista Delors, capo della Commissione, un memorandum su un possibile accordo di cooperazione commerciale tra l’insieme delle nazioni europee e quelle di Africa, isole caraibiche ed alcune del Pacifico: nasce da quel memorandum la Convenzione di Lomè, il più importante accordo commerciale e di cooperazione allo sviluppo tra l’allora nella CEE e l’insieme dei Paesi africani esclusa l’allora razzista Repubblica Sud Africana. Senza entrare nel funzionamento della Convenzione, che ebbe vita sino alla fine del secolo, e senza altrettanto evidenziarne i limiti e le critiche che pure ci sono state ed hanno pesato nella valutazione dei venticinque anni di collaborazione, resta però un fatto politico incontrovertibile, e cioè l’intuizione che sottintendeva quell’accordo, il suo spirito.
L’idea di Delors e Pisani era semplice: se vogliamo fare l’Europa politica dobbiamo cominciare dal mettere in comune le politiche estere dei suoi componenti, e farlo attraverso una grande accordo di cooperazione economica che possa diventare un vero e proprio modello di cooperazione allo sviluppo. Ovviamente il continente di riferimento non poteva essere che l’Africa, storicamente vincolata all’Europa dal comune passato coloniale, ma, almeno allora, ancora speranzosa di una avvenire di prosperità. Mettendo in comune una parte rilevante delle politiche commerciali comunitarie, così pensavano Delors e Pisani, si sarebbero ben presto visti i vantaggi della cessione di sovranità e si sarebbe così cominciato a mettere in comune anche gradienti crescenti di politiche interne. In altre parole il punto di partenza per la costruzione dell’Europa politica negli anni della guerra fredda era la politica estera. Ed infatti, almeno sino alla metà degli anni Novanta, l’Europa di Lomè riuscì a costituirsi come “terzo polo” tra USA ed URSS, proprio attraverso questo accordo di partenariato, cioè di pari dignità, con l’insieme del continente africano. Basti pensare che , allora, a queste azioni di sviluppo del commercio fu dedicato un Fondo apposito, il FED (Fondo Europe di Sviluppo) e che all’interno della cornice di Lomè venne inaugurata la cosiddetta “cooperazione decentrata” cioè quella tra società civili del Nord e del Sud. La ratio di Lomè era semplice: aiutare l’Africa a strutturarsi commercialmente sostenendone non solo l’infrastrutturazione importando in esenziona di dogana i suoi prodotti di base, ma anche alimentandone attivamente i processi di partecipazione democratica.
Tutto questo, non a caso, finisce con la nascita del WTO, dopo la vittoria americana nella guerra fredda, che dichiara Lomè “distorsiva della libera concorrenza” ed unque pone fine ad un sistema di sostegno attivo alle deboli economia africane risucchiandole nel vortice della competizione mondiale. E però, mutatis mutandis, il principio della politica estera come specchio di quella interna, rimane sempre valido; da questo il ruolo capitale che l’Alto Rappresentante potrebbe giocare se si volesse riprendere il cammino verso una Europa politica a partire dalle sfide che immediatamente, cioè senza mediazione, spettano e riguardano l’identità europea: il conflitto tra Israele e lo Stato Palestinese, a partire dal suo immediato riconoscimento, il rilancio dell’iniziativa euro mediterranea per riequilibrare lo strapotere dell’Europa “del burro” con quella “dell’olio”, un rilancio complessivo delle azioni di cooperazione verso il continente africano e la zona medio orientale a sostegno delle società civili e dei processi di democratizzazione che né la Cina né gli Usa hanno in agenda. Federica Mogherini sappia che, se volesse almeno provarci, non è sola. Non ci sono solo gli egoismi nazionali ma anche i milioni di cittadini europei che vogliono una cambio di passo perché, come Delors, sanno bene che la solidarietà internazionale è lo specchio di quella continentale.
Raffaele K Salinari