Breve storia del veleno, da Alias 7-11-2015

«Nulla è di per sé veleno, tutto è di per sé veleno, è la dose che fa il veleno» diceva Para­celso. Nel libro di Castor Durante, medico e spe­ziale rina­sci­men­tale, Il tesoro della sanità, edito nel 1586 in Roma, l’autore sostiene che, pro­prio per que­sto, ogni veleno ha il suo anti­doto, se non spe­ci­fico, almeno in grado di aiu­tare il corpo a con­tra­starne l’effetto. E, in vero, la sto­ria dei veleni e dei loro anti­doti è antica quanto quella dell’umanità stessa, affon­dando nella cosmo­lo­gia dei tanti mondi pos­si­bili che l’umanità ha imma­gi­nato per spie­gare il suo esserci.

Veleno deriva dal latino venè­num, messo in con­nes­sione, fatto inte­res­sante, con Venus, Venere, dea della bel­lezza e dell’amore, poi­ché indi­cava in ori­gina non una qual­siasi pozione bensì, in spe­ci­fico, il fil­tro d’amore. Il venè­num diviene poi, per esten­sione «ogni mate­ria spe­cial­mente liquida, capace per la sua forza pene­trante di mutare la pro­prietà natu­rale di una cosa». Ecco allora che i romani aggiun­ge­vano di volta in volta l’aggettivo malum, per desi­gnare un pro­dotto nocivo, distin­guen­dolo così da quello che poteva ser­vire da rime­dio. Nel Dige­sto, la rac­colta di deci­sioni e pareri di giu­ri­sti romani fatta redi­gere dall’imperatore Giu­sti­niano nel VI secolo, si legge infatti: «Qui vene­num dicit, adi­cere debet, utrum malum an bonum: nam et medi­ca­menta venena sunt, quia eo nomine omne con­ti­ne­tur, quod adhi­bi­tum natu­ram eius, cui adhi­bi­tum esset, mutat», ossia: «Chi dice veleno deve aggiun­gere cat­tivo o buono; invero anche i medi­ca­menti sono veleni, poi­ché con tal nome si com­prende tutto quello che, appli­cato, modi­fica la natura di ciò cui lo si applica». Da que­sto spi­rito defi­ni­to­rio si capi­sce bene anche l’etimologia anglo­sas­sone di drug che indica sia il far­maco sia lo stupefacente.

Le prime tracce di uti­lizzo del veleno risal­gono a oltre 10.000 anni fa. Già nel Mag­da­le­niano, l’ultima fase del Paleo­li­tico supe­riore euro­peo, le comu­nità che popo­la­vano il nostro con­ti­nente usa­vano il veleno per cac­ciare. Nel 1858, il paleon­to­logo Alfred Fon­tan rin­venne, durante scavi presso la grotta infe­riore di Mas­sat, nell’Ariége (regione del Midi-Pirenei), fra i resti ossei di grossi mam­mi­feri, alcuni fram­menti di frecce, rica­vate dall’osso o dall’avorio degli ani­mali, sulle cui punte erano pre­senti delle sca­na­la­ture, pro­ba­bil­mente per trat­te­nere su di esse il veleno. Chi scrive ha vis­suto una decina d’anni tra i pig­mei Bam­bute delle fore­sta dell’Ituri nella Repub­blica Demo­cra­tica del Congo, ed anche tra quelle popo­la­zioni di cac­cia­tori rac­co­gli­tori l’uso delle frecce sca­na­late per cac­ciare col veleno è ancora in uso.

Ma, al di là e soprat­tutto prima dei suoi usi pro­fani, il rap­porto tra veleno ed uma­nità rileva di signi­fi­cati sacri che affon­dano nei pri­mordi delle civiltà. Prima tra tutte è la rela­zione tra veleno e crea­zione, tanto intima quanto meta­fo­rica di quella tra Bene e Male; la sostanza vele­nosa rap­pre­senta infatti, sul piano sim­bo­lico, l’eterna pre­senza del nega­tivo in ogni cosa, ma anche la pos­si­bi­lità, attra­verso un con­tra veleno, che il male tra­smuti nel bene, e vice­versa. Nella civiltà cat­to­lica, non a caso, è il ser­pente, ani­male vele­noso per eccel­lenza, anzi la cui unica arma effi­cace è spesso solo quella della sua pro­du­zione mor­tale, a pro­porre all’uomo di acce­dere alla «cono­scenza del bene e del male»: secondo l’interpretazione giudaico-cristiana un «veleno dell’anima» che lo por­terà alla cac­ciata dal para­diso e a dover sop­por­tare il peso del pec­cato ori­gi­nale. Da que­sto anche l’ombra pec­ca­mi­nosa get­tata su Eros che, giu­sta­mente dirà Nie­tzsche, «è stato avve­le­nato dal cri­stia­ne­simo sino a tra­sfor­marlo in lus­su­ria». Ma ogni mito­lo­gia delle fon­da­zioni dedica al veleno un mito com­plesso, il cui mito­lo­gema risiede pro­prio in que­sto assunto dua­li­stico ine­stri­ca­bile e mute­vole: la pola­rità sim­bo­lica veleno con­tra veleno come costi­tu­tiva del tes­suto stesso della realtà.

Il mondo Greco

Nelle mito­lo­gia greca la triade che sovrin­ten­deva, non solo alla medi­cina, ma al molto più com­plesso rap­porto tra nor­ma­lità e pato­lo­gia, era com­po­sta di ben tre divi­nità. La prima è Ermes-Mercurio, la divi­nità dell’annuncio e della sot­tile iro­nia, dello «spi­rito che rende liberi e sani», ma anche della dupli­cità e della tra­sfor­ma­zione insite nell’ordine delle cose. Il cadu­ceo di Mer­cu­rio è il sim­bolo della coniu­ga­zione degli oppo­sti, i due ser­penti la cui risa­lita e avvin­ghia­mento lungo «l’axis mundi», genera un nuovo equi­li­brio. Ma il calice della sal­vezza, nel quale si abbe­ve­rano le serpi, è quello nel quale Ascle­pio, figlio di Apollo, dio dell’armonia, pre­pa­rerà i suoi rimedi. Que­sti saranno poi som­mi­ni­strati secondo «scienza e coscienza» seguendo la sag­gezza di Atena.

Ma il rime­dio, il phar­ma­kon, non sarebbe pos­si­bile senza il veleno del ser­pente, in altre parole senza che anche il male par­te­cipi alla gua­ri­gione. Per­ché ciò che cura può anche ucci­dere, e vice­versa. L’etimologia di far­maco è infatti rife­rita sia ad un prin­ci­pio di cura sia al veleno, forse deri­vando dall’egiziano mak che signi­fi­cava la com­pre­senza dei due. Il ser­pente dun­que, sim­bolo non della mal­va­gità ma della parte oscura, nasco­sta e stri­sciante che vive in ognuno di noi, non solo non deve essere demo­niz­zato ma è fon­da­men­tale asso­ciarlo invece alla cura. La cop­pia Ermes-Apollo da una parte, ed i due ser­penti dall’altra, deli­neano allora un dua­li­smo che riflette essen­zial­mente il rap­porto arche­ti­pico tra il nor­male ed il pato­lo­gico, che non pos­sono e non devono essere scissi ma vanno invece ricon­giunti. Dice un testo alche­mico: «La cura è nel ricon­giun­gi­mento tra gli oppo­sti. Ermes si occupa di mostrarci la strada regia della con­giun­zione, Apollo la sua misura, ma sono i ser­penti, mobili come il mer­cu­rio, ter­re­stri come gli ele­menti mine­rali, umidi a mute­voli al con­tatto con il sole e la luna, che ci for­ni­scono la prima mate­ria». Come nella tra­ge­dia greca Dio­niso ed Apollo si com­ple­men­tano, così la diade veleno far­maco va letta nella stessa chiave.

Il veleno cosmico

Narra il mito indù che Vishnù mise d’accordo i Deva e gli Asura, dei e demoni sem­pre in lotta tra loro per il pos­sesso del Mondo, e li spinse ad una for­zata col­la­bo­ra­zione per pro­durre l’Amrita, chia­mata Soma nei Veda, la bevanda che rende immor­tali. Il pro­ce­di­mento con­si­steva nella zago­la­tura dell’Oceano di latte, la mente umana, usando come frul­lino la mon­ta­gna cosmica Man­dara e come fru­sta l’immenso ser­pente cosmico poli­ce­falo Vasuki dalla cui bocca, all’inizio, schiumò un denso veleno, il kala­kuta, che rischiava di annien­tare tutto il Mondo. Solo lo yogi cosmico, il potente Shiva, poteva berlo ed annien­tarne così i nefa­sti effetti: ecco per­ché il collo del dio sarà sem­pre tinto del suo blu mor­tale; da qui uno dei suoi nomi Nila­kan­tha (colui che ha il collo blu).

Levi-Strauss, nel suo Il crudo ed il cotto, ci riporta invece i miti fon­da­tori delle popo­la­zioni indios Kachuyana situate nella fore­sta amaz­zo­nica bra­si­liana tra il fiume Trom­be­tas ed il Cha­corro, ine­renti la crea­zione del curaro, uno dei leg­gen­dari veleni da cac­cia. Quelle popo­la­zioni nar­rano che un cac­cia­tore, dopo aver ucciso una scim­mia, non riu­sciva a man­giarne le carni per un senso di rispetto sacrale. Dopo molti giorni, tro­vando sem­pre un pasto caldo al ritorno dalla cac­cia, espresse il desi­de­rio di avere una moglie che si com­por­tasse allo stesso modo: entrato nella capanna vide una splen­dida fan­ciulla che gli pre­pa­rava da man­giare; la scim­mia era spa­rita. Dopo le nozze il gio­vane cac­cia­tore pre­sentò sua moglie alla fami­glia. Poi venne il turno della moglie: era la sua una fami­glia di scim­mie. Il cac­cia­tore fu però lascito solo sugli alberi men­tre tutte le altre scim­mie scom­pa­ri­vano, inclusa la moglie. Pas­sava di li un avvol­toio al quale il ragazzo chiese aiuto: que­sti star­nutì e dai fila­menti di muco si formò una liana. Ma era troppo sot­tile per­ché il gio­vane potesse scen­dere. Allora l’avvoltoio chiamò l’aquila-arpia che pro­dusse nello stesso modo una liana molto più grossa. Una volta sceso dall’albero al cac­cia­tore l’aquila-arpia inse­gnò anche come cuo­cere la liana e rica­varne il curaro col quale egli uccise tutte le scim­mie meno una pic­co­lina, dalla quelle ven­gono tutte quelle attuali.

Anche qui è da notare una rela­zione tra la nascita del veleno e la donna, mito­lo­gema comune a quasi tutte le cul­ture arcai­che, in cui il potere crea­tore e distrut­tore del fem­mi­nile è molto presente.

Levi-Strauss com­menta il mito così: «Si direbbe che, per giun­gere al veleno, i miti deb­bono tutti pas­sare per una spe­cie di varco, la cui angu­stia avvi­cina sin­go­lar­mente la natura alla cul­tura, l’animalità e l’umanità», facendo notare che ancora oggi, nelle pre­pa­ra­zione del veleno ci si deve aste­nere da qual­siasi con­tatto con le donne ma che, soprat­tutto, le popo­la­zioni indios riten­gono che l’aquila-arpia sia l’incarnazione dell’aldilà, del mondo dei morti che ha pro­dotto quello dei vivi ed ancora veglia su di loro. E dun­que il veleno è un dono, il segno di una alleanza, non solo tra gene­ra­zioni, ma anche tra mondo ani­male e mondo umano.

Que­ste le rifles­sioni finali di Levi-Strauss sul signi­fi­cato sim­bo­lico del veleno, ove il ter­mine sim­bo­lico, cioè sin-ballo riu­nire, diventa eti­mo­lo­gi­ca­mente coe­rente con la tesi dell’autore di Tri­sti Tro­pici: «La natura e la cul­tura, l’animalità e l’umanità diven­gono reci­pro­ca­mente per­mea­bili. Si passa libe­ra­mente e senza osta­coli da una sfera all’altra… que­ste due sfere si mesco­lano a tal punto che ogni ter­mine dell’una evoca imme­dia­ta­mente un ter­mine cor­re­la­tivo nell’altra, in quanto essi sono in grado di signi­fi­carsi reci­pro­ca­mente… Esso (il veleno) è infatti una sostanza natu­rale che viene ad inse­rirsi come tale in un’attività cul­tu­rale… Il veleno è incom­pa­ra­bil­mente più potente dell’uomo e dei mezzi ordi­nari di cui que­sti dispone, ampli­fica il suo gesto ed anti­cipa i suoi effetti, agi­sce più rapi­da­mente e con mag­giore effi­ca­cia». E dun­que attra­verso l’uso del veleno e dei suoi ascen­denti mito­lo­gici, la natura pene­tra momen­ta­nea­mente nella cul­tura; con­clude Levi-Strauss che: «Per alcuni istanti si svol­ge­rebbe un’operazione con­giunta, nella quale le rispet­tive parti diver­reb­bero indi­scer­ni­bili… Se abbiamo cor­ret­ta­mente inter­pre­tato la filo­so­fia indi­gena, l’uso del veleno appa­rirà come un atto cul­tu­rale gene­rato diret­ta­mente da una pro­prietà natu­rale… punto di isor­mo­fi­smo tra natura e cul­tura, risul­tante dalla loro compenetrazione».

Il vene­fi­cio come arma politica

Una legge romana, risa­lente all’imperatore Anto­nino Pio, enun­cia chia­ra­mente: «Plus est homi­nem extin­guere veneno, quam occi­dere gla­dio», cioè «È più grave ucci­dere un uomo con il veleno che con la spada».

Il vene­fico è da sem­pre il mezzo più dif­fuso per togliere discre­ta­mente di mezzo i pro­pri nemici. La capa­cità di un veleno di ucci­dere in modo invi­si­bile, e a distanza di tempo dalla sua assun­zione, ne ha sem­pre fatto uno stru­mento per­fetto per omi­cidi e ven­dette poli­ti­che in cui il col­pe­vole voleva restare ano­nimo, o avere il tempo di allon­ta­narsi dalla scena del delitto. Anche il sui­ci­dio poli­tico con il veleno anno­vera casi famosi, si pensi a Socrate ed alla sua cicuta o a Cleo­pa­tra ed al suo aspide.

Pro­ba­bili vene­fici furono ancora quello dell’imperatore Clau­dio avve­le­nato dalla moglie Agrip­pina con un piatto di fun­ghi e una piuma intrisa di una pozione letale, come anche la morte di Bri­tan­nico per mano di Nerone. Arri­vando al Medioevo, tro­viamo il famoso avve­le­na­tore Carlo detto il Cat­tivo, re di Navarra e conte d’Èvreux, che regnò dal 1349 al 1387, anno della sua morte. È addi­rit­tura con la bene­di­zione del Papa che Machia­velli, testi­mone delle con­giure ordite dai Bor­gia, con la tri­ste­mente nota acqua Tofana, parla del vene­fi­cio come arma poli­tica.

L’acqua Tofana

L’acqua Tofana (o Tof­fana), era com­po­sta da una solu­zione di ani­dride arse­niosa addi­zio­nata con un alcoo­lato di can­ta­ri­dina, estratta dalle ali della can­ta­ride, la famosa «mosca spa­gnola», nota già dai tempi di Pli­nio ed usata anche come afro­di­siaco. Le cro­na­che con­tem­po­ra­nee nar­rano ancora di gio­vani sprov­ve­duti dece­duti per via della can­ta­ri­dina usata in que­sto modo. Il fil­tro mor­tale ha preso il nome da colei che sem­bra averlo creato: Giu­lia Tofana, una cor­ti­giana di Filippo IV di Spa­gna. La sua sto­ria ci dice che nei primi del Sei­cento a Palermo, una rela­zione con un far­ma­ci­sta le per­mise di aver accesso ai veleni più comuni, e di impra­ti­chirsi al loro uso. Pare un vezzo di fami­glia, in quanto Giu­lia era forse la figlia di una certa Tho­fa­nia d’Adamo, giu­sti­ziata a Palermo il 12 luglio 1633, così ci ripor­tano le cro­na­che, per aver fatto morire «cum veneno pro­pi­nato» suo marito Fran­ce­sco e per aver ven­duto una sostanza vele­nosa che aveva cau­sato altri decessi.

Ma forse la più nota avve­le­na­trice poli­tica fu Lucre­zia Bor­gia che mise a punto la cosid­detta «cami­cia ita­liana». Si pren­deva un indu­mento che doveva stare a stretto con­tatto con la pelle (una cami­cia, o una maglia appunto) e lo si stro­fi­nava deli­ca­ta­mente con sapone all’arsenico. Se con­si­de­riamo che a quei tempi l’igiene faceva difetto, e che dun­que un indu­mento era indos­sata anche per mol­tis­simo tempo, la vit­tima len­ta­mente ma fatal­mente moriva. Forse una tec­nica uti­liz­zata anche dagli inglesi per ucci­dere Napo­leone. In tempi più recenti il veleno è stato usato in casi come quello di Alek­sandr Lit­vi­nenko, ex agente del KGB morto Il 23 novem­bre 2006 a causa di un avve­le­na­mento da radia­zione da polonio-210, e pro­ba­bil­mente anche per ucci­dere Yas­ser Arafat.

La Teriaca

Il numero dei veleni è pres­so­ché infi­nito: ve ne sono di pro­ve­nienza dal vasto regno ani­male, si pensi ai ser­penti, ai ragni, alle sco­lo­pen­dre, alle meduse, alle tra­cine, e di ori­gine vege­tale, curaro e cicuta, o mine­rale, arse­nico e via enu­me­rando. Non pos­sono man­care, ovvia­mente, in que­sto som­ma­ris­simo elenco cate­go­riale, quelli di sin­tesi: dall’iprite al Zyklon B, per non par­lare dei più tri­ste­mente noti, sino alla dios­sina che inonda i pol­moni di tanti cit­ta­dini resi­denti nelle vici­nanza di noti impianti side­rur­gici. Ma, per limi­tarsi a quelli natu­rali, il sogno della far­ma­co­lo­gia è sem­pre stato quello di tro­vare un anti­doto uni­ver­sale che li scon­fig­gesse tutti.

A que­sto pro­po­sito, in un pic­colo bloc-notes risa­lente agli anni ’30-’40 del secolo scorso di Gio­vanni Recor­dati, fon­da­tore della nota casa far­ma­ceu­tica, tro­viamo un ricet­ta­rio gale­nico nel quale era ripor­tata la com­po­si­zione dell’«Acqua Teria­cale». Il ter­mine, secondo quanto scrive G. Olmi nel suo arti­colo Il Far­maco prin­cipe: la Teriaca, era già in uso negli ambienti medici di Ales­san­dria d’Egitto nel IV-III secolo a.C.. Il suo nome viene fatto deri­vare dal fem­mi­nile di the­ria­còs, cioè «buono con­tro le mor­si­ca­ture degli ani­mali», a sua volta deri­vato da the­rìon, ani­male vele­noso. Nel tempo la com­po­si­zione della Teriaca è molto mutata: Nico­mede II di Biti­nia, ad esem­pio, stu­diava e ricom­bi­nava diversi anti­doti, men­tre Attalo III Phi­lo­me­tore, re di Per­gamo nel I secolo a.C., mesco­lava piante vele­noso con altre non peri­co­lose ed ela­bo­rava i suoi anti­doti. Fu per suo ordine che il cele­bre far­ma­co­logo Nican­dro di Colo­fone (ca. 150 a.C.) scrisse i due trat­tati: The­riaka e Ale­xi­phar­maka, il primo sugli avve­le­na­menti da ani­mali ed il secondo su quelli da vege­tali. La sto­ria della Teriaca vera e pro­pria ini­zia però con un altro anti­doto famoso: quello svi­lup­pato da Mitri­date VII (o forse VI) Eupa­tore, re del Ponto (132–63 a.C.), il più cele­bre tra i sovrani esperti di tos­si­co­lo­gia. Pli­nio il Vec­chio, nella sua Sto­ria Natu­rale (Vol IV, Libro XXIX, cap. 24:285), scrive che: «Il Mith­ri­da­tiu­mum anti­do­ton era for­mato da 54 ingre­dienti». Secondo Paz­zini nel suo Sto­ria dell’Arte Sani­ta­ria dalle ori­gini a oggi, il sovrano aveva stu­diato, assieme al suo medico Cra­teua, tutti i pos­si­bili casi di avve­le­na­mento e di ognuno lo spe­ci­fico rime­dio; met­tendo assieme tutti gli anti­doti si poteva così con­tra­stare ogni pos­si­bile vene­fi­cio. Pli­nio poi ci dice anche: «Uni ei exco­gi­ta­tum coti­die vene­num bibere prae­sump­tis reme­diis, ut con­sue­tu­dine ipsa inno­xium fie­ret». Da que­sta con­sue­tu­dine di inge­rire quo­ti­dia­na­mente il veleno nasce il feno­meno del «mitri­da­ti­smo» quello, cioè, del prin­ci­pio di assue­fa­zione pro­gres­siva ai tos­sici naturali.

Nel 63 a.C., dopo ripe­tute guerre con Roma, Mitri­date fu defi­ni­ti­va­mente scon­fitto da Pom­peo e si fece ucci­dere da un servo con la spada non essendo riu­scito a morire di veleno. Dopo la vit­to­ria, Gneo Pom­peo portò con sé a Roma il Mith­ri­da­tium, la ricca biblio­teca di ricette tos­si­co­lo­gi­che del sovrano scon­fitto. Circa un secolo più tardi, Andro­maco il Vec­chio, medico di Nerone, rie­la­borò la for­mula teria­cale di Mitri­date, aggiun­gen­dovi soprat­tutto la carne di vipera. Il con­cetto base era sem­pre quello dell’assuefazione: il veleno è anti­doto a se stesso cioè, come dicono gli omeo­pati, simi­lia simi­li­bus curan­tur. E così, con l’aggiunta della carne di vipera, che pro­duce un veleno di tipo emo­tos­sico, a dif­fe­renza di quello degli ela­pidi, come ad esem­pio il Cobra, che pro­du­cono invece una tos­sina neu­ro­tos­sica, la Triaca di Andro­maco divenne l’antiveleno per antonomasia.

Galeno ci scrisse due pic­cole opere e ricordò anche il modo per fare i tro­ci­sci (i pre­cur­sori delle nostre pasti­glie) con la carne di vipera, i quali ser­vi­vano poi per con­fe­zio­nare la Teriaca. Fede­rico De Roma­nis nel suo stu­dio Cas­sia, Cin­na­mono, Ossi­diana, nel capi­tolo dedi­cato a medi­cina e società nella Roma impe­riale, ci dice come fosse nota: «La costanza con cui l’ipocondriaco Marco Aure­lio era solito pre­mu­nirsi da avve­le­na­menti con la quo­ti­diana inge­stione di anti­doti, soprat­tutto quelli poten­tis­simi e costo­sis­simi, come la Mith­ri­dà­teios e la Theriakè».

Durante il medioevo la Teriaca godette di alta con­si­de­ra­zione nella medi­cina araba: Gio­vanni Mesue Dama­sceno descrive anche la The­riaca dia­tes­sa­ron cioè «com­po­sta di quat­tro cose», men­tre Avi­cenna la richiama nel suo Liber Cano­nis pre­ci­san­done l’efficacia in base all’età della sua com­po­si­zione; età che para­gona a quelle dell’uomo. Moses Mai­mo­ni­des, un gigante della medi­cina, nel 1198 nel suo cele­ber­rimo Trea­tise on Poi­sons and Their Anti­do­tes, riprende il tema scri­vendo che: «Uni­ver­sal anti­do­tes con­sist of the great the­riac, the elec­tuary of Mith­ri­da­tes, and the small the­riac (com­po­sed of only four ingre­dients)». Dopo l’Alto Medioevo la medi­cina esce da que­gli stessi mona­steri che ave­vano tra­scritto, in mezzo alla bar­ba­rie ed all’ignoranza vol­gare, anche della Chiesa, i testi della civiltà greco-latina, e nascono le prime scuole lai­che. Nel X secolo era cele­bre quella di Salerno. Il Flos Medi­ci­nae Scho­lae Salerni rac­co­man­dava: «La Teriaca è effi­cace per l’apoplessia …la pleu­rite …la fredda idro­pi­sia …il morto feto …l’epilessia…».

Le cro­ciate

Le cro­ciate da un lato ed i com­merci con l’Oriente di Vene­ziani e Geno­vesi dall’altro por­ta­rono in Europa nuove spe­zie e nuovi veleni. E dun­que anche la Teriaca dovette adat­tarsi a que­ste nuove con­fi­gu­ra­zioni geo­po­li­ti­che. Già nell’ambito stret­ta­mente medi­ter­ra­neo esi­steva da tempo un con­trav­ve­leno per i morsi di taran­tole, scor­pioni, ser­penti e sco­lo­pen­dre: la terra sigil­lata di Malta, pro­dotta dall’Ordine Caval­le­re­sco con spe­ci­fi­che sigil­la­ture, dalla grotta nella quale si diceva avesse dimo­rato S Paolo. Il Santo, infatti, nel suo viag­gio a Roma verso il 60 d.C., aveva fatto nau­fra­gio nell’isola e si era ripa­rato in una grotta nella quale, però, era stato assa­lito da ser­penti vele­nosi. Il Santo li aveva scac­ciati senza alcun danno e da allora il ter­reno della grotta aveva rap­pre­sen­tato un anti­ve­leno rico­no­sciuto e, per que­sto, ammi­ni­strato dall’Ordine.

Ma la Teriaca, spon­so­riz­zata dai nuovi padroni delle rotte delle spe­zie, aveva la fama di poter con­tra­stare ogni tipo di veleno, e dun­que divenne un far­maco di domi­nio pub­blico ma, pro­prio per que­sto, sot­to­po­sto a regole ben pre­cise. Il primo a pre­pa­rarla al cospetto dei cit­ta­dini fu il far­ma­ci­sta Moi­sis Cha­ras, prima ad Orange poi a Parigi. La Sere­nis­sima ne fece invece, per diverso tempo, un vero e pro­prio mono­po­lio e la sua pre­pa­ra­zione avve­niva con una ceri­mo­nia uffi­ciale e pub­blica. La com­po­si­zione era auten­ti­cata da un appo­sito docu­mento, ancora con­sul­ta­bile presso la Biblio­teca Mar­ciana, il Codice Far­ma­ceu­tico per lo Stato della Sere­nis­sima Repub­blica di Vene­zia. A Bolo­gna il con­fe­zio­na­mento, sem­pre garan­tito dal Col­le­gio dei Medici e degli Spe­ziali, avve­niva nel cor­tile dell’Archiginnasio.

Pro­spero Alpino, medico al seguito del patri­zio veneto Gior­gio Emo, inviato dalla Repub­blica veneta con­sole al Cairo, parti da Vene­zia il 21 set­tem­bre 1580 per appro­dare ad Ales­san­dria non prima del 22 marzo 1581, dove fu trat­te­nuto a lungo, causa la peste; giunse al Cairo appena il 7 luglio. In Egitto restò poco più di tre anni e nel novem­bre 1584 era di nuovo a Vene­zia. In seguito divenne «let­tore dei sem­plici» all’università di Padova nel 1594. Nel suo De medi­cina aegyp­tio­rum del 1591 (Libro IV, cap. VIII), ci dice che al Cairo tutti pote­vano pre­pa­rare pri­va­ta­mente i medi­ca­menti più comuni, dun­que pre­su­mi­bil­mente l’ascish e l’oppio, ma nes­suno la Teriaca che si con­fe­zio­nava invece solo nel tem­pio detto More­stan. Nel capi­tolo suc­ces­sivo Alpino elenca det­ta­glia­ta­mente le dosi dei ben cin­quanta ele­menti delle Teriaca di Andro­maco pre­senti in loco.

Il tra­monto della Teriaca

Come tutti i pro­dotti com­mer­ciali di suc­cesso, anche la Teriaca susci­tava cri­ti­che ed invi­die: Ber­nardo il Pro­ven­zale già nel 1150 dichia­rava sca­dente quella della scuola medica di Salerno dove, non dispo­nendo dell’orobo lo sosti­tui­vano con la lobe­lia; i Vene­ziani get­ta­vano dal ponte di Rialto quelle a loro dire false; a Bolo­gna Ulisse Aldro­vandi, grande natu­ra­li­sta, aven­dovi intro­dotto il Costus Ara­bi­cus e l’amomo, si trovò con­tro il Col­le­gio dei Medici e degli Spe­ziali. Da una parte quindi l’aggiunta di com­po­nenti eso­tici e costosi, dall’altra le dif­fi­coltà di approv­vi­gio­na­mento anche di una parte di quelli ori­gi­nari per il mutare delle col­ture, fini­vano per ren­derne dif­fi­cile la pro­du­zione esatta e cor­retta. Ne parla Pie­tro Andrea Mat­tioli, medico senese di chiara fama, chia­mato da Fer­di­nando I a Praga come medico per­so­nale del suo secon­do­ge­nito nel 1555, anche se già l’anno suc­ces­sivo fu costretto a seguirlo in Unghe­ria nella guerra con­tro i Tur­chi. Nei suoi Discorsi sopra i sei libri di Peda­cio Dio­sco­ride si era reso conto delle con­se­guenze di tale situa­zione. Nella dedica a Cate­rina Regina di Polo­nia, dopo gli elogi della Teriaca «molto più valo­rosa in ogni sua ope­ra­tione d’ogni altro qual si voglia anti­doto» faceva notare, per gli ingre­dienti, che certe «così rare cose», già all’epoca di Galeno veni­vano dai con­fini dell’impero, ma che ai suoi tempi ciò era impos­si­bile. Per que­sto così con­clu­deva: «Il che n’avisa che non ci dob­biamo mera­vi­gliare, se le nostre the­ria­che, & Mitri­dati non si pos­sano com­piu­ta­mente pre­pa­rare, & non cor­ri­spon­dano con la virtù à gli effetti, che ne pro­met­tono i nomi loro…».

Anche per la Teriaca, esat­ta­mente come per le false pastic­che di terra mal­tese sigil­lata, fio­ri­vano usanze assai discu­ti­bili, come quella di con­fe­zio­nare le «tazze teria­cali» get­tando nel metallo in fusione, col quale poi si dove­vano fon­dere le tazze, una certa quan­tità di Teriaca per tra­sfon­dere in esse il prin­ci­pio anti­ve­leno. Una tazza di terra mal­tese sigil­lata è ancora visi­bile nel Museo di Palazzo Poggi a Bolo­gna, men­tre non restano tracce cono­sciute delle tazze teria­cali. Nel volume Avver­ti­menti al popolo sulla sua salute del dot­tor Tis­sot, edito a Vene­zia nel 1716, si cita ancora l’acqua teria­cale can­fo­rata. Nel corso del secolo XIX la carne di vipera scom­pare defi­ni­ti­va­mente, ma la Teriaca era ancora usata nell’800. Ad esem­pio negli Annali Civili del regno delle Due Sici­lie, del 1837, Volume XIII pag. 76, si cita ancora il rime­dio come : «Accon­cio a fre­nare la diar­rea con pic­cole dosi di iper­ca­cuana» men­tre lo Zam­be­letti nel suo Manuale Teorico-Pratico (1869) ripor­tava la ricetta dell’acqua teria­cale, con l’indicazione: «Comu­ne­mente si crede che quest’acqua rie­sce effi­ca­cis­sima ad ucci­dere i vermi intestinali»

Ma il secolo breve can­cella, anche se non del tutto la Teriaca, come infine ci dicono nel loro com­ple­tis­simo stu­dio del 2004, Signo­relli, Tolo­melli e Rota: «Non suona dun­que come un’eccentricità che anche un vec­chio tac­cuino della Far­ma­cia Recor­dati ripor­tasse la for­mula dell’Acqua teria­cale. Can­cel­lare un ter­mine con oltre due­mila anni di sto­ria non era cer­ta­mente facile». Eppure, molte erbo­ri­ste­rie con­tem­po­ra­nee la pro­du­cono ancora, segno che il vec­chio mito del far­maco uni­ver­sale, della Pana­cea, non morirà mai.

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