«Nulla è di per sé veleno, tutto è di per sé veleno, è la dose che fa il veleno» diceva Paracelso. Nel libro di Castor Durante, medico e speziale rinascimentale, Il tesoro della sanità, edito nel 1586 in Roma, l’autore sostiene che, proprio per questo, ogni veleno ha il suo antidoto, se non specifico, almeno in grado di aiutare il corpo a contrastarne l’effetto. E, in vero, la storia dei veleni e dei loro antidoti è antica quanto quella dell’umanità stessa, affondando nella cosmologia dei tanti mondi possibili che l’umanità ha immaginato per spiegare il suo esserci.
Veleno deriva dal latino venènum, messo in connessione, fatto interessante, con Venus, Venere, dea della bellezza e dell’amore, poiché indicava in origina non una qualsiasi pozione bensì, in specifico, il filtro d’amore. Il venènum diviene poi, per estensione «ogni materia specialmente liquida, capace per la sua forza penetrante di mutare la proprietà naturale di una cosa». Ecco allora che i romani aggiungevano di volta in volta l’aggettivo malum, per designare un prodotto nocivo, distinguendolo così da quello che poteva servire da rimedio. Nel Digesto, la raccolta di decisioni e pareri di giuristi romani fatta redigere dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo, si legge infatti: «Qui venenum dicit, adicere debet, utrum malum an bonum: nam et medicamenta venena sunt, quia eo nomine omne continetur, quod adhibitum naturam eius, cui adhibitum esset, mutat», ossia: «Chi dice veleno deve aggiungere cattivo o buono; invero anche i medicamenti sono veleni, poiché con tal nome si comprende tutto quello che, applicato, modifica la natura di ciò cui lo si applica». Da questo spirito definitorio si capisce bene anche l’etimologia anglosassone di drug che indica sia il farmaco sia lo stupefacente.
Le prime tracce di utilizzo del veleno risalgono a oltre 10.000 anni fa. Già nel Magdaleniano, l’ultima fase del Paleolitico superiore europeo, le comunità che popolavano il nostro continente usavano il veleno per cacciare. Nel 1858, il paleontologo Alfred Fontan rinvenne, durante scavi presso la grotta inferiore di Massat, nell’Ariége (regione del Midi-Pirenei), fra i resti ossei di grossi mammiferi, alcuni frammenti di frecce, ricavate dall’osso o dall’avorio degli animali, sulle cui punte erano presenti delle scanalature, probabilmente per trattenere su di esse il veleno. Chi scrive ha vissuto una decina d’anni tra i pigmei Bambute delle foresta dell’Ituri nella Repubblica Democratica del Congo, ed anche tra quelle popolazioni di cacciatori raccoglitori l’uso delle frecce scanalate per cacciare col veleno è ancora in uso.
Ma, al di là e soprattutto prima dei suoi usi profani, il rapporto tra veleno ed umanità rileva di significati sacri che affondano nei primordi delle civiltà. Prima tra tutte è la relazione tra veleno e creazione, tanto intima quanto metaforica di quella tra Bene e Male; la sostanza velenosa rappresenta infatti, sul piano simbolico, l’eterna presenza del negativo in ogni cosa, ma anche la possibilità, attraverso un contra veleno, che il male trasmuti nel bene, e viceversa. Nella civiltà cattolica, non a caso, è il serpente, animale velenoso per eccellenza, anzi la cui unica arma efficace è spesso solo quella della sua produzione mortale, a proporre all’uomo di accedere alla «conoscenza del bene e del male»: secondo l’interpretazione giudaico-cristiana un «veleno dell’anima» che lo porterà alla cacciata dal paradiso e a dover sopportare il peso del peccato originale. Da questo anche l’ombra peccaminosa gettata su Eros che, giustamente dirà Nietzsche, «è stato avvelenato dal cristianesimo sino a trasformarlo in lussuria». Ma ogni mitologia delle fondazioni dedica al veleno un mito complesso, il cui mitologema risiede proprio in questo assunto dualistico inestricabile e mutevole: la polarità simbolica veleno contra veleno come costitutiva del tessuto stesso della realtà.
Il mondo Greco
Nelle mitologia greca la triade che sovrintendeva, non solo alla medicina, ma al molto più complesso rapporto tra normalità e patologia, era composta di ben tre divinità. La prima è Ermes-Mercurio, la divinità dell’annuncio e della sottile ironia, dello «spirito che rende liberi e sani», ma anche della duplicità e della trasformazione insite nell’ordine delle cose. Il caduceo di Mercurio è il simbolo della coniugazione degli opposti, i due serpenti la cui risalita e avvinghiamento lungo «l’axis mundi», genera un nuovo equilibrio. Ma il calice della salvezza, nel quale si abbeverano le serpi, è quello nel quale Asclepio, figlio di Apollo, dio dell’armonia, preparerà i suoi rimedi. Questi saranno poi somministrati secondo «scienza e coscienza» seguendo la saggezza di Atena.
Ma il rimedio, il pharmakon, non sarebbe possibile senza il veleno del serpente, in altre parole senza che anche il male partecipi alla guarigione. Perché ciò che cura può anche uccidere, e viceversa. L’etimologia di farmaco è infatti riferita sia ad un principio di cura sia al veleno, forse derivando dall’egiziano mak che significava la compresenza dei due. Il serpente dunque, simbolo non della malvagità ma della parte oscura, nascosta e strisciante che vive in ognuno di noi, non solo non deve essere demonizzato ma è fondamentale associarlo invece alla cura. La coppia Ermes-Apollo da una parte, ed i due serpenti dall’altra, delineano allora un dualismo che riflette essenzialmente il rapporto archetipico tra il normale ed il patologico, che non possono e non devono essere scissi ma vanno invece ricongiunti. Dice un testo alchemico: «La cura è nel ricongiungimento tra gli opposti. Ermes si occupa di mostrarci la strada regia della congiunzione, Apollo la sua misura, ma sono i serpenti, mobili come il mercurio, terrestri come gli elementi minerali, umidi a mutevoli al contatto con il sole e la luna, che ci forniscono la prima materia». Come nella tragedia greca Dioniso ed Apollo si complementano, così la diade veleno farmaco va letta nella stessa chiave.
Il veleno cosmico
Narra il mito indù che Vishnù mise d’accordo i Deva e gli Asura, dei e demoni sempre in lotta tra loro per il possesso del Mondo, e li spinse ad una forzata collaborazione per produrre l’Amrita, chiamata Soma nei Veda, la bevanda che rende immortali. Il procedimento consisteva nella zagolatura dell’Oceano di latte, la mente umana, usando come frullino la montagna cosmica Mandara e come frusta l’immenso serpente cosmico policefalo Vasuki dalla cui bocca, all’inizio, schiumò un denso veleno, il kalakuta, che rischiava di annientare tutto il Mondo. Solo lo yogi cosmico, il potente Shiva, poteva berlo ed annientarne così i nefasti effetti: ecco perché il collo del dio sarà sempre tinto del suo blu mortale; da qui uno dei suoi nomi Nilakantha (colui che ha il collo blu).
Levi-Strauss, nel suo Il crudo ed il cotto, ci riporta invece i miti fondatori delle popolazioni indios Kachuyana situate nella foresta amazzonica brasiliana tra il fiume Trombetas ed il Chacorro, inerenti la creazione del curaro, uno dei leggendari veleni da caccia. Quelle popolazioni narrano che un cacciatore, dopo aver ucciso una scimmia, non riusciva a mangiarne le carni per un senso di rispetto sacrale. Dopo molti giorni, trovando sempre un pasto caldo al ritorno dalla caccia, espresse il desiderio di avere una moglie che si comportasse allo stesso modo: entrato nella capanna vide una splendida fanciulla che gli preparava da mangiare; la scimmia era sparita. Dopo le nozze il giovane cacciatore presentò sua moglie alla famiglia. Poi venne il turno della moglie: era la sua una famiglia di scimmie. Il cacciatore fu però lascito solo sugli alberi mentre tutte le altre scimmie scomparivano, inclusa la moglie. Passava di li un avvoltoio al quale il ragazzo chiese aiuto: questi starnutì e dai filamenti di muco si formò una liana. Ma era troppo sottile perché il giovane potesse scendere. Allora l’avvoltoio chiamò l’aquila-arpia che produsse nello stesso modo una liana molto più grossa. Una volta sceso dall’albero al cacciatore l’aquila-arpia insegnò anche come cuocere la liana e ricavarne il curaro col quale egli uccise tutte le scimmie meno una piccolina, dalla quelle vengono tutte quelle attuali.
Anche qui è da notare una relazione tra la nascita del veleno e la donna, mitologema comune a quasi tutte le culture arcaiche, in cui il potere creatore e distruttore del femminile è molto presente.
Levi-Strauss commenta il mito così: «Si direbbe che, per giungere al veleno, i miti debbono tutti passare per una specie di varco, la cui angustia avvicina singolarmente la natura alla cultura, l’animalità e l’umanità», facendo notare che ancora oggi, nelle preparazione del veleno ci si deve astenere da qualsiasi contatto con le donne ma che, soprattutto, le popolazioni indios ritengono che l’aquila-arpia sia l’incarnazione dell’aldilà, del mondo dei morti che ha prodotto quello dei vivi ed ancora veglia su di loro. E dunque il veleno è un dono, il segno di una alleanza, non solo tra generazioni, ma anche tra mondo animale e mondo umano.
Queste le riflessioni finali di Levi-Strauss sul significato simbolico del veleno, ove il termine simbolico, cioè sin-ballo riunire, diventa etimologicamente coerente con la tesi dell’autore di Tristi Tropici: «La natura e la cultura, l’animalità e l’umanità divengono reciprocamente permeabili. Si passa liberamente e senza ostacoli da una sfera all’altra… queste due sfere si mescolano a tal punto che ogni termine dell’una evoca immediatamente un termine correlativo nell’altra, in quanto essi sono in grado di significarsi reciprocamente… Esso (il veleno) è infatti una sostanza naturale che viene ad inserirsi come tale in un’attività culturale… Il veleno è incomparabilmente più potente dell’uomo e dei mezzi ordinari di cui questi dispone, amplifica il suo gesto ed anticipa i suoi effetti, agisce più rapidamente e con maggiore efficacia». E dunque attraverso l’uso del veleno e dei suoi ascendenti mitologici, la natura penetra momentaneamente nella cultura; conclude Levi-Strauss che: «Per alcuni istanti si svolgerebbe un’operazione congiunta, nella quale le rispettive parti diverrebbero indiscernibili… Se abbiamo correttamente interpretato la filosofia indigena, l’uso del veleno apparirà come un atto culturale generato direttamente da una proprietà naturale… punto di isormofismo tra natura e cultura, risultante dalla loro compenetrazione».
Il veneficio come arma politica
Una legge romana, risalente all’imperatore Antonino Pio, enuncia chiaramente: «Plus est hominem extinguere veneno, quam occidere gladio», cioè «È più grave uccidere un uomo con il veleno che con la spada».
Il venefico è da sempre il mezzo più diffuso per togliere discretamente di mezzo i propri nemici. La capacità di un veleno di uccidere in modo invisibile, e a distanza di tempo dalla sua assunzione, ne ha sempre fatto uno strumento perfetto per omicidi e vendette politiche in cui il colpevole voleva restare anonimo, o avere il tempo di allontanarsi dalla scena del delitto. Anche il suicidio politico con il veleno annovera casi famosi, si pensi a Socrate ed alla sua cicuta o a Cleopatra ed al suo aspide.
Probabili venefici furono ancora quello dell’imperatore Claudio avvelenato dalla moglie Agrippina con un piatto di funghi e una piuma intrisa di una pozione letale, come anche la morte di Britannico per mano di Nerone. Arrivando al Medioevo, troviamo il famoso avvelenatore Carlo detto il Cattivo, re di Navarra e conte d’Èvreux, che regnò dal 1349 al 1387, anno della sua morte. È addirittura con la benedizione del Papa che Machiavelli, testimone delle congiure ordite dai Borgia, con la tristemente nota acqua Tofana, parla del veneficio come arma politica.
L’acqua Tofana
L’acqua Tofana (o Toffana), era composta da una soluzione di anidride arseniosa addizionata con un alcoolato di cantaridina, estratta dalle ali della cantaride, la famosa «mosca spagnola», nota già dai tempi di Plinio ed usata anche come afrodisiaco. Le cronache contemporanee narrano ancora di giovani sprovveduti deceduti per via della cantaridina usata in questo modo. Il filtro mortale ha preso il nome da colei che sembra averlo creato: Giulia Tofana, una cortigiana di Filippo IV di Spagna. La sua storia ci dice che nei primi del Seicento a Palermo, una relazione con un farmacista le permise di aver accesso ai veleni più comuni, e di impratichirsi al loro uso. Pare un vezzo di famiglia, in quanto Giulia era forse la figlia di una certa Thofania d’Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio 1633, così ci riportano le cronache, per aver fatto morire «cum veneno propinato» suo marito Francesco e per aver venduto una sostanza velenosa che aveva causato altri decessi.
Ma forse la più nota avvelenatrice politica fu Lucrezia Borgia che mise a punto la cosiddetta «camicia italiana». Si prendeva un indumento che doveva stare a stretto contatto con la pelle (una camicia, o una maglia appunto) e lo si strofinava delicatamente con sapone all’arsenico. Se consideriamo che a quei tempi l’igiene faceva difetto, e che dunque un indumento era indossata anche per moltissimo tempo, la vittima lentamente ma fatalmente moriva. Forse una tecnica utilizzata anche dagli inglesi per uccidere Napoleone. In tempi più recenti il veleno è stato usato in casi come quello di Aleksandr Litvinenko, ex agente del KGB morto Il 23 novembre 2006 a causa di un avvelenamento da radiazione da polonio-210, e probabilmente anche per uccidere Yasser Arafat.
La Teriaca
Il numero dei veleni è pressoché infinito: ve ne sono di provenienza dal vasto regno animale, si pensi ai serpenti, ai ragni, alle scolopendre, alle meduse, alle tracine, e di origine vegetale, curaro e cicuta, o minerale, arsenico e via enumerando. Non possono mancare, ovviamente, in questo sommarissimo elenco categoriale, quelli di sintesi: dall’iprite al Zyklon B, per non parlare dei più tristemente noti, sino alla diossina che inonda i polmoni di tanti cittadini residenti nelle vicinanza di noti impianti siderurgici. Ma, per limitarsi a quelli naturali, il sogno della farmacologia è sempre stato quello di trovare un antidoto universale che li sconfiggesse tutti.
A questo proposito, in un piccolo bloc-notes risalente agli anni ’30-’40 del secolo scorso di Giovanni Recordati, fondatore della nota casa farmaceutica, troviamo un ricettario galenico nel quale era riportata la composizione dell’«Acqua Teriacale». Il termine, secondo quanto scrive G. Olmi nel suo articolo Il Farmaco principe: la Teriaca, era già in uso negli ambienti medici di Alessandria d’Egitto nel IV-III secolo a.C.. Il suo nome viene fatto derivare dal femminile di theriacòs, cioè «buono contro le morsicature degli animali», a sua volta derivato da therìon, animale velenoso. Nel tempo la composizione della Teriaca è molto mutata: Nicomede II di Bitinia, ad esempio, studiava e ricombinava diversi antidoti, mentre Attalo III Philometore, re di Pergamo nel I secolo a.C., mescolava piante velenoso con altre non pericolose ed elaborava i suoi antidoti. Fu per suo ordine che il celebre farmacologo Nicandro di Colofone (ca. 150 a.C.) scrisse i due trattati: Theriaka e Alexipharmaka, il primo sugli avvelenamenti da animali ed il secondo su quelli da vegetali. La storia della Teriaca vera e propria inizia però con un altro antidoto famoso: quello sviluppato da Mitridate VII (o forse VI) Eupatore, re del Ponto (132–63 a.C.), il più celebre tra i sovrani esperti di tossicologia. Plinio il Vecchio, nella sua Storia Naturale (Vol IV, Libro XXIX, cap. 24:285), scrive che: «Il Mithridatiumum antidoton era formato da 54 ingredienti». Secondo Pazzini nel suo Storia dell’Arte Sanitaria dalle origini a oggi, il sovrano aveva studiato, assieme al suo medico Crateua, tutti i possibili casi di avvelenamento e di ognuno lo specifico rimedio; mettendo assieme tutti gli antidoti si poteva così contrastare ogni possibile veneficio. Plinio poi ci dice anche: «Uni ei excogitatum cotidie venenum bibere praesumptis remediis, ut consuetudine ipsa innoxium fieret». Da questa consuetudine di ingerire quotidianamente il veleno nasce il fenomeno del «mitridatismo» quello, cioè, del principio di assuefazione progressiva ai tossici naturali.
Nel 63 a.C., dopo ripetute guerre con Roma, Mitridate fu definitivamente sconfitto da Pompeo e si fece uccidere da un servo con la spada non essendo riuscito a morire di veleno. Dopo la vittoria, Gneo Pompeo portò con sé a Roma il Mithridatium, la ricca biblioteca di ricette tossicologiche del sovrano sconfitto. Circa un secolo più tardi, Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, rielaborò la formula teriacale di Mitridate, aggiungendovi soprattutto la carne di vipera. Il concetto base era sempre quello dell’assuefazione: il veleno è antidoto a se stesso cioè, come dicono gli omeopati, similia similibus curantur. E così, con l’aggiunta della carne di vipera, che produce un veleno di tipo emotossico, a differenza di quello degli elapidi, come ad esempio il Cobra, che producono invece una tossina neurotossica, la Triaca di Andromaco divenne l’antiveleno per antonomasia.
Galeno ci scrisse due piccole opere e ricordò anche il modo per fare i trocisci (i precursori delle nostre pastiglie) con la carne di vipera, i quali servivano poi per confezionare la Teriaca. Federico De Romanis nel suo studio Cassia, Cinnamono, Ossidiana, nel capitolo dedicato a medicina e società nella Roma imperiale, ci dice come fosse nota: «La costanza con cui l’ipocondriaco Marco Aurelio era solito premunirsi da avvelenamenti con la quotidiana ingestione di antidoti, soprattutto quelli potentissimi e costosissimi, come la Mithridàteios e la Theriakè».
Durante il medioevo la Teriaca godette di alta considerazione nella medicina araba: Giovanni Mesue Damasceno descrive anche la Theriaca diatessaron cioè «composta di quattro cose», mentre Avicenna la richiama nel suo Liber Canonis precisandone l’efficacia in base all’età della sua composizione; età che paragona a quelle dell’uomo. Moses Maimonides, un gigante della medicina, nel 1198 nel suo celeberrimo Treatise on Poisons and Their Antidotes, riprende il tema scrivendo che: «Universal antidotes consist of the great theriac, the electuary of Mithridates, and the small theriac (composed of only four ingredients)». Dopo l’Alto Medioevo la medicina esce da quegli stessi monasteri che avevano trascritto, in mezzo alla barbarie ed all’ignoranza volgare, anche della Chiesa, i testi della civiltà greco-latina, e nascono le prime scuole laiche. Nel X secolo era celebre quella di Salerno. Il Flos Medicinae Scholae Salerni raccomandava: «La Teriaca è efficace per l’apoplessia …la pleurite …la fredda idropisia …il morto feto …l’epilessia…».
Le crociate
Le crociate da un lato ed i commerci con l’Oriente di Veneziani e Genovesi dall’altro portarono in Europa nuove spezie e nuovi veleni. E dunque anche la Teriaca dovette adattarsi a queste nuove configurazioni geopolitiche. Già nell’ambito strettamente mediterraneo esisteva da tempo un contravveleno per i morsi di tarantole, scorpioni, serpenti e scolopendre: la terra sigillata di Malta, prodotta dall’Ordine Cavalleresco con specifiche sigillature, dalla grotta nella quale si diceva avesse dimorato S Paolo. Il Santo, infatti, nel suo viaggio a Roma verso il 60 d.C., aveva fatto naufragio nell’isola e si era riparato in una grotta nella quale, però, era stato assalito da serpenti velenosi. Il Santo li aveva scacciati senza alcun danno e da allora il terreno della grotta aveva rappresentato un antiveleno riconosciuto e, per questo, amministrato dall’Ordine.
Ma la Teriaca, sponsorizzata dai nuovi padroni delle rotte delle spezie, aveva la fama di poter contrastare ogni tipo di veleno, e dunque divenne un farmaco di dominio pubblico ma, proprio per questo, sottoposto a regole ben precise. Il primo a prepararla al cospetto dei cittadini fu il farmacista Moisis Charas, prima ad Orange poi a Parigi. La Serenissima ne fece invece, per diverso tempo, un vero e proprio monopolio e la sua preparazione avveniva con una cerimonia ufficiale e pubblica. La composizione era autenticata da un apposito documento, ancora consultabile presso la Biblioteca Marciana, il Codice Farmaceutico per lo Stato della Serenissima Repubblica di Venezia. A Bologna il confezionamento, sempre garantito dal Collegio dei Medici e degli Speziali, avveniva nel cortile dell’Archiginnasio.
Prospero Alpino, medico al seguito del patrizio veneto Giorgio Emo, inviato dalla Repubblica veneta console al Cairo, parti da Venezia il 21 settembre 1580 per approdare ad Alessandria non prima del 22 marzo 1581, dove fu trattenuto a lungo, causa la peste; giunse al Cairo appena il 7 luglio. In Egitto restò poco più di tre anni e nel novembre 1584 era di nuovo a Venezia. In seguito divenne «lettore dei semplici» all’università di Padova nel 1594. Nel suo De medicina aegyptiorum del 1591 (Libro IV, cap. VIII), ci dice che al Cairo tutti potevano preparare privatamente i medicamenti più comuni, dunque presumibilmente l’ascish e l’oppio, ma nessuno la Teriaca che si confezionava invece solo nel tempio detto Morestan. Nel capitolo successivo Alpino elenca dettagliatamente le dosi dei ben cinquanta elementi delle Teriaca di Andromaco presenti in loco.
Il tramonto della Teriaca
Come tutti i prodotti commerciali di successo, anche la Teriaca suscitava critiche ed invidie: Bernardo il Provenzale già nel 1150 dichiarava scadente quella della scuola medica di Salerno dove, non disponendo dell’orobo lo sostituivano con la lobelia; i Veneziani gettavano dal ponte di Rialto quelle a loro dire false; a Bologna Ulisse Aldrovandi, grande naturalista, avendovi introdotto il Costus Arabicus e l’amomo, si trovò contro il Collegio dei Medici e degli Speziali. Da una parte quindi l’aggiunta di componenti esotici e costosi, dall’altra le difficoltà di approvvigionamento anche di una parte di quelli originari per il mutare delle colture, finivano per renderne difficile la produzione esatta e corretta. Ne parla Pietro Andrea Mattioli, medico senese di chiara fama, chiamato da Ferdinando I a Praga come medico personale del suo secondogenito nel 1555, anche se già l’anno successivo fu costretto a seguirlo in Ungheria nella guerra contro i Turchi. Nei suoi Discorsi sopra i sei libri di Pedacio Dioscoride si era reso conto delle conseguenze di tale situazione. Nella dedica a Caterina Regina di Polonia, dopo gli elogi della Teriaca «molto più valorosa in ogni sua operatione d’ogni altro qual si voglia antidoto» faceva notare, per gli ingredienti, che certe «così rare cose», già all’epoca di Galeno venivano dai confini dell’impero, ma che ai suoi tempi ciò era impossibile. Per questo così concludeva: «Il che n’avisa che non ci dobbiamo meravigliare, se le nostre theriache, & Mitridati non si possano compiutamente preparare, & non corrispondano con la virtù à gli effetti, che ne promettono i nomi loro…».
Anche per la Teriaca, esattamente come per le false pasticche di terra maltese sigillata, fiorivano usanze assai discutibili, come quella di confezionare le «tazze teriacali» gettando nel metallo in fusione, col quale poi si dovevano fondere le tazze, una certa quantità di Teriaca per trasfondere in esse il principio antiveleno. Una tazza di terra maltese sigillata è ancora visibile nel Museo di Palazzo Poggi a Bologna, mentre non restano tracce conosciute delle tazze teriacali. Nel volume Avvertimenti al popolo sulla sua salute del dottor Tissot, edito a Venezia nel 1716, si cita ancora l’acqua teriacale canforata. Nel corso del secolo XIX la carne di vipera scompare definitivamente, ma la Teriaca era ancora usata nell’800. Ad esempio negli Annali Civili del regno delle Due Sicilie, del 1837, Volume XIII pag. 76, si cita ancora il rimedio come : «Acconcio a frenare la diarrea con piccole dosi di ipercacuana» mentre lo Zambeletti nel suo Manuale Teorico-Pratico (1869) riportava la ricetta dell’acqua teriacale, con l’indicazione: «Comunemente si crede che quest’acqua riesce efficacissima ad uccidere i vermi intestinali»
Ma il secolo breve cancella, anche se non del tutto la Teriaca, come infine ci dicono nel loro completissimo studio del 2004, Signorelli, Tolomelli e Rota: «Non suona dunque come un’eccentricità che anche un vecchio taccuino della Farmacia Recordati riportasse la formula dell’Acqua teriacale. Cancellare un termine con oltre duemila anni di storia non era certamente facile». Eppure, molte erboristerie contemporanee la producono ancora, segno che il vecchio mito del farmaco universale, della Panacea, non morirà mai.