biopolitica dela pandemia di Ebola, da Il Manifesto 8-10-14

Dal dicembre 2013 è in corso la prima epidemia documentata da virus Ebola in Africa occidentale, la più grande sino ad ora riscontrata sia per il numero di focolai attivi che di decessi riportati, ad oggi circa duemila. Quest’ampiezza è dovuta al fatto che in passato – il virus è noto sin dalla metà degli anni Settanta – i casi erano ristretti alle zone rurali poco popolate e distanti tra loro, mentre l’epidemia attuale si presenta in modalità urbana, in aree cioè densamente popolate e con condizioni igieniche che la favoriscono, come nei sobborghi delle capitali Freetown, Conakry e Monrovia. L’origine di questa epidemia non è nota, tuttavia si sospetta che i primi casi possano essere stati contagiati da cacciagione infetta – il virus, infatti, è zoonotico cioè ospitato da diverse specie animali – mentre la maggior parte dei casi secondari ha probabilmente partecipato alle cerimonie funebri tradizionali dei primi deceduti, che comprendono la veglia del defunto e la sua esposizione pubblica e senza protezione per diversi giorni, entrando così in contatto col virus. Per questo si ritiene che la trasmissione interumana diretta costituisca al momento la principale fonte di contagio e trasmissione della malattia. Per capire l’epidemiologia di questo specifico evento, e soprattutto cosa c’è dietro le contromisure che sono state prese dalla comunità internazionale, cominciamo allora col dire che l’epidemia non è arrivata del tutto inattesa, in quanto la Guinea presenta un ecosistema già associato con epidemie da Ebola: infezioni umane sono state sierologicamente documentate nel recente passato. Dunque assistiamo ad una manifestazione di origine endemica, cioè sempre presente in una certa zona, che diventa progressivamente epidemica, cioè si allarga ad altre aree. Ciò significa che ci sono responsabilità umane evidenti, almeno nel non prendere in considerazione le varie fasi che portano da una condizione circoscritta, e dunque gestibile con i presidi locali, a quella di area vasta, che ha invece bisogno di infrastrutture sanitarie molto più sofisticate. I primi casi di Ebola, infatti, si sono verificati nella regione forestale della Guinea sud-orientale, vicino al confine con la Liberia e la Sierra Leone; l’eziologia venne confermata già nel marzo 2014. In seguito, l’epidemia ha cominciato ad estendersi e, nel settembre 2014, sono stati segnalati altri casi sospetti e/o confermati di Ebola, in Guinea, Liberia, Serra Leone, Nigeria e Senegal. Era questo il momento, se veramente ce ne fosse stata la volontà, di circoscrivere l’epidemia in fase iniziale, anche perché è nota l’entità importante sia della mobilità all’interno dei singoli Paesi, sia di quella transfrontaliera, favorita dalla presenza di comunità omogenee che, insediate lungo confini di origine coloniale, condividono appartenenze tribali ancestrali e dunque attività socio-culturali comuni. Ma non è andata così. L’epidemia si è propagata a macchia d’olio, con progressione geometrica, sino a giungere alla fase attuale, sostanzialmente fuori controllo, almeno con i mezzi attualmente a disposizione delle autorità sanitarie locali. Ora, di fronte alle statistiche di mortalità che configurano un vero e proprio genocidio, dobbiamo chiederci a chi giova questa drammatica situazione. E allora proviamo a spiegare la posizione occidentale sul tardivo intervento sanitario, con l’uso politico dell’epidemia e quindi del conseguente utilizzo che si intende fare dei fondi per combatterla. In realtà dietro ciò che sta accadendo vive, tra le altre cose, la visione, cinica ma realistica, che l’Africa sub sahariana possa essere «ricolonizzata» dall’Occidente entro una decina di anni senza colpo ferire. L’idea non è nuova, ma il combinato disposto della pandemia di Aids in atto già dagli anni Ottanta e di quella da Ebola oggi, ha dato a questa teoria dello «spazio vitale» nuovo impulso. Detto con chiarezza: come non soffermarsi sulla possibilità che un Occidente in affanno di materie prime a basso costo e spazi nei quali scaricare i rifiuti, non aspetti che le pandemie facciano il loro corso per poi cogliere il frutto maturo di nazioni deprivate delle sue forze migliori, magari spartendole con l’emergente Cina? Una pura spiegazione biopolitica secondo la visione di Foucault, nulla di originale. I promessi aiuti infatti, anche se dovessero arrivare, non serviranno a sconfiggere la malattia, questo lo sanno tutti, ma al massimo la terranno sotto controllo, decidendo così delle vite che vale la pena (la plusvalenza) di salvare, da quelle che invece vanno semplicemente lasciate morire. Chi oggi andasse a Monrovia vedrebbe scene da Medio Evo: veri e propri lazzaretti dove i disgraziati sospettati di Ebola vengono confinati e lasciati a se stessi. A cosa servono quindi realmente quei pochi milioni di dollari che comunque arriveranno, con tanto di tute gialle riprese e rilanciate dal media mainstream su tutti gli schermi del mondo? In sintesi a rafforzare le basi per un controllo mirato delle popolazioni ma soprattutto delle loro relazioni territoriali con le risorse strategiche. Già da anni, infatti, con la scusa dell’epidemiologia dell’Aids, vengono «tracciate» le popolazioni nei loro flussi migratori. Lo studio del morbo si è così da tempo trasformato in una forma di controllo delle popolazioni, nomadi per necessità, attraverso pratiche di schedatura di massa; la stessa cosa rischia di avvenire anche per Ebola, basti pensare alla relazione tra epidemiologia e migrazioni internazionali per capire che strumento potente di «contenimento» rappresenta potenzialmente questa epidemia. La volontà americana di gestire la situazione attraverso i militari, è solo un esempio di questa «geopolitica della pandemia» che venne lanciata con discrezione nei lontani anni Ottanta quando, dopo una prima fase molto spettacolare, gli aiuti per la lotta all’Aids sono praticamente stati azzerati. Se si adotta questo punto di vista si capiscono allora molte altre vicende in atto nel continente africano; ad esempio la ragione del perché piccole guerre dimenticate, e dimenticabili, vengono oggi lasciate al loro destino per magari domani essere rimesse sotto i riflettori a giustificare qualche intervento umanitario. Tutto questo è stato evidenziato all’interno dell’ultimo rapporto UNDP sullo sviluppo umano, che sottolinea il dato strutturale della vulnerabilità di intere popolazioni anche a causa dell’abbandono da parte dei paesi ricchi delle politiche che una volta si definivano «di sviluppo», per muovere ad una concezione decisamente emergenziale delle relazioni tra i paesi arricchiti e quelli impoveriti. Se è vero, in conclusione, che costerebbe meno prevenire che curare, possiamo dire, parafrasando Karl Kraus, che oggi l’umanitario è la pulsione sadica del capitalismo.
Raffaele K. Salinari

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