Terra Sigillata Melitensis
In un passo della Descrizione dell’isola di Malta di Giovanni Quintino Eduo, pubblicata nel 1536, viene riferito che «esiste sull’isola una terra miracolosa che viene chiamata dal popolo Gratiam Sancti Pauli, e che avrebbe la proprietà di curare dal veleno di serpenti, scorpioni e ragni». Nel XVI secolo la Terra Melitensis aveva conquistato una fama così grande presso tutte le classi della società europea che ben presto cominciò ad essere contraffatta e spacciata, per mercati e fiere, dai cosiddetti sampaolari, guaritori girovaghi che pretendevano di curare dagli avvelenamenti, in nome di una loro discendenza diretta dal Santo, utilizzando la «vera terra maltese».
La situazione imponeva dunque la necessità, per chi intendeva sfruttarla sia a fini terapeutici sia religiosi, di gestirne in esclusiva l’autenticità: nasce così la Terra Sigillata Melitensis, cui le autorità ecclesiali decidono di apporre un apposito sigillo. Le virtù della Terra Melitensis vengono «sigillate» per la prima volta da Monsignor Pietro Dusina, Inquisitore, durante la sua visita pastorale avvenuta in Malta il 9 febbraio del 1575. Nelle cronache del soggiorno la Chiesa, per la prima volta, riconosce ufficialmente le virtù curative della terra che, se mischiata all’acqua: «adversus omnia venena prodesse», giovano contro ogni veleno. Si collega così indissolubilmente «hanc gratiam» al soggiorno di San Paolo nell’isola e alla volontà di Dio che «in questo modo opera attraverso i suoi Santi».
Ma come nasce questa credenza, e dove specificatamente si trova la terra miracolosa?
Il Viaggio di San Paolo da Gerusalemme a Malta
«Ti sei appellato a Cesare, e da Cesare andrai!». Così il governatore di Gerusalemme, Porcio Festo, decreta il viaggio dell’Apostolo a Roma; Paolo è deciso a perseguire la propria missione, in coerenza con la visione apparsagli sulla via di Damasco.
«Io sono Gesù, che tu perseguiti. Ma ora alzati e sta’ in piedi; io ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto di me e di quelle per cui ti apparirò. Ti libererò dal popolo e dalle nazioni, a cui ti mando per aprire i loro occhi, perché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e ottengano il perdono dei peccati e l’eredità, in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me».
L’Apostolo delle Genti era stato accusato di eresia e tradimento dai sacerdoti giudei e per questo detenuto nel carcere di Cesarea. Portato dinanzi all’autorità romana, Paolo dimostra che le accuse nei suoi confronti sono inconsistenti ed insiste nel poter dimostrare la sua fede dinanzi all’Augusto. Anche di fronte al re Agrippa, venuto ad ascoltarlo, egli ripete la sua professione di innocenza.
«Perciò, o re Agrippa, io non ho disobbedito alla visione celeste, ma, prima a quelli di Damasco, poi a quelli di Gerusalemme e in tutta la regione della Giudea e infine ai pagani, predicavo di pentirsi e di convertirsi a Dio, comportandosi in maniera degna della conversione. Per queste cose i Giudei, mentre ero nel tempio, mi presero e tentavano di uccidermi. Ma, con l’aiuto di Dio, fino a questo giorno, sto qui a testimoniare agli umili e ai grandi, null’altro affermando se non quello che i Profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè il Cristo avrebbe dovuto soffrire e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunciato la luce al popolo e alle genti».
Il governatore romano, a questo punto, d’accordo con re Agrippa, decide di far imbarcare Paolo su una nave diretta a Roma. Ma siamo nel mese di novembre e le tempeste sono frequenti nel Mediterraneo; ad un certo punto il vascello viene sospinto fuori rotta da un vento chiamato «Euroaquilone», che costringe il capitano, un centurione di nome Giulio, ad un approdo di fortuna sull’isola di Malta.
Il luogo è presunto dal nome Melite, riportato nella pericope neotestamentaria, ma quest’affermazione geografica ha dato vita a numerosi studi, che sulla vexata quaestio melitense hanno prospettato ipotesi diverse. Mentre la maggioranza degli studiosi concorda per l’approdo maltese, dopo ben quattordici giorni passati in balia delle onde, esistono anche le obiezioni di chi nega l’identificazione dell’isola con l’odierna Malta, preferendole la dalmata Mljet, o la greca Cefalonia.
Sia come sia, una volta sbarcato Paolo incontra i nativi. Probabilmente all’epoca nell’isola non si parlavano né il latino né il greco ma una forma di punico, la lingua che Flaubert metterà in bocca alla principessa Salambó nell’omonimo romanzo “cartaginese”.
Gli indigeni dell’isola secondo Luca, al quale vengono attribuiti gli Atti degli Apostoli dove la vicenda è narrata (26-28) sono, infatti, definiti barbaroi, e dunque interessante sarebbe comprendere come San Paolo riesca a cogliere subito il nome dell’isola appena dopo il naufragio. Fatto sta che la popolazione accoglie benevolmente i naufraghi: nel racconto neotestamentario, infatti, pur essendo barbaroi, essi sono capaci di philanthropia; nel greco ellenistico questo sostantivo veniva comunemente utilizzato per esprimere il concetto di «ospitalità».
A questo proposito bisogna pensare che, intorno al I secolo d.C., Malta era considerata l’“isola della salvezza”, a ragione sia della posizione topografica centrale all’interno del Mediterraneo, sia per la presenza del grande tempio dedicato ad Astarte-Giunone, molto conosciuto e rispettato, con un «diritto di asilo» che nessuno, secondo quanto riportato da Cicerone, aveva mai violato, neppure Massinissa, re di Numidia. Il concetto di luogo di rifugio, secondo Achille Ferris, uno studioso che nel 1862 pubblicò Notizie storiche sull’etimologia dei nomi appropriati a varie località dell’isola di Malta, rimase anche nel nome dell’isola, strettamente imparentato con l’ebraico Malet, che significa «ricovero», «asilo».
San Paolo e i serpenti
«Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con ospitalità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: “Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere”. Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma, dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio. Nelle vicinanze di quel luogo c’era un terreno appartenente al “primo” dell’isola, chiamato Publio; questi ci accolse e ci ospitò con benevolenza per tre giorni. Avvenne che il padre di Publio dovette mettersi a letto colpito da febbri e da dissenteria; Paolo l’andò a visitare e dopo aver pregato gli impose le mani e lo guarì.
Dopo questo fatto, anche gli altri isolani che avevano malattie accorrevano e venivano sanati; ci colmarono di onori e al momento della partenza ci rifornirono di tutto il necessario».
Ecco nascere il mito del Santo come taumaturgo sia perché immune dal veleno dei serpenti, sia come guaritore. L’Apostolo delle Genti passa tre mesi sull’isola, e si rifugia in una grotta nei pressi della cittadina di Rabat, che diviene in seguito il luogo di culto e di provenienza della miracolosa Terra Sigillata Melitensis, o Terra Sancti Pauli che aveva la proprietà di guarire dal morso di serpenti, scorpioni e ragni. Anche l’episodio della guarigione del padre del “primo” Publio dalla dissenteria, cioè da una morbo legato all’acqua, avrà una parte fondamentale nel culto del Santo come guaritore dei tarantolati.
Intimamente legato alle acque, che nella vicenda maltese di San Paolo hanno importanza rilevante, è connesso infatti il culto dei pozzi. Per capirne l’origine bisogna fare riferimento al contesto culturale preesistente all’epoca del Santo, espressione diretta di una particolare realtà geografica. Nella zona della baia di San Paolo – luogo designato dalla tradizione come punto di sbarco del Santo naufrago – così come in certe zone del Salento, terra di tarantolati, i poteri dell’Apostolo si estendevano al culto delle acque come strumento di guarigione, probabilmente perché si trattava, e si tratta tuttora, di aree nelle quali è difficile reperirne o addirittura ne sono prive. Vedremo come il ruolo del pozzo presso la cappella di San Paolo a Galatina nei «relitti» dell’esorcismo coreutico musicale del tarantismo, osservato da De Martino e la sue équipe alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, ne è la prova oggettiva.
Nel 1536 Giovanni Quintino Eduo riporta l’ubicazione della Grotta in un passo della sua Descrizione: «Propter urbem spelunca est effossa introrsum rupe». Menziona pertanto una grotta ubicata nel fossato della città, detto anche chandah, dove esistevano un tempo le prigioni di Stato.
In realtà sino al XVI secolo la tradizione paolina in Malta resta confinata al culto popolare autoctono, compreso l’uso della Terra Sancti Pauli, anche perché le vicissitudini geopolitiche dell’isola, conquistata dai romani dopo la seconda guerra punica, poi caduta in mano agli arabi nel 970 ed infine sotto il dominio della cristianità europea a partire dall’occupazione da parte dei Normanni nell’anno 1090, non ne consentivano la libera espressione.
Il pieno sviluppo della fortissima tradizione paolina si deve all’arrivo dell’Ordine Gerosolimitano nell’arcipelago. Dopo la caduta in mano turca dell’isola di Rodi nel 1522, l’imperatore Carlo V donò Malta, Gozo e Tripoli in gestione perpetua all’Ordine con diritto di pieni poteri, in cambio della simbolica consegna di un falcone maltese ogni anno. Da parte sua l’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme si impegnava a difendere i possedimenti siciliani dall’avanzata dei Turchi.
L’investitura venne sancita solennemente con il diploma imperiale del 1530, data da cui i Cavalieri rimasero a Malta, tranne nella breve parentesi napoleonica, fino al 1834, quando la sede maggiore venne trasferita a Roma.
Gli Ospitalieri capirono il potenziale simbolico del culto paolino, soprattutto legato alle virtù terapeutiche della Gratia Sancti Pauli, tanto che durante il magistero del Gran Maestro Aloph de Wignacourt (1601-1622), si dispose affinché la grotta ove aveva soggiornato l’Apostolo avesse un’officiatura da parte dei Cappellani dell’Ordine. I documenti indicano il 24 aprile dell’anno 1617 la data ufficiale in cui l’Ordine Gerosolimitano prese possesso della Grotta di San Paolo a Rabat, situata fuori le mura della civitas romana dentro il fossato dell’antica Melite.
La Grotta di Rabat divenne così meta di numerosissimi pellegrini, provenienti da vari paesi, tra cui Italia, Francia, Spagna, Fiandra, Polonia. Il luogo era infatti ben presto entrato a far parte di quel circuito dei grandi pellegrinaggi, che collegava Roma, Gerusalemme e San Giacomo di Compostela. Si poneva allora, con maggior forza, l’esigenza di salvaguardare l’autenticità della Terra Sancti Pauli: la soluzione fu trovata nei sigilli.
I sigilli e le coppe contra veleno.
I sigilli utilizzati per «verificare» la provenienza della terra miracolosa furono numerosi; la maggior parte riproduceva l’immagine di San Paolo e quella della Croce di Malta. Spesso la Terra Sigillata Melitensis, confezionata in panetti o pasticche, veniva accompagnata nei suoi viaggi da una «licenza», sorta di foglietto il cui testo era pressoché uguale per tutti, sia che venissero stampati in Malta sia all’estero. In questa notula, oltre all’autenticità del prodotto, si raccomandava che la terra venisse portata «da fidata persona della detta Isola di Malta con le debite fedi». Il più antico di questi fogli volanti, fortunosamente conservati, risale al 1643; fu stampato a Malta e riprodotto successivamente da Thomas Bartolinus nel suo Historiarum anatomicarum et medicarum rariorum.
Se è il più antico tra quelli rimasti, certo però non fu il primo ad essere stato stampato. In una lettera del Commendatore Fissio Cavagliati, datata 4 agosto 1620 e spedita da Malta al Duca di Mantova, Ferdinando Gonzaga, si fa cenno, infatti, ad una «ricetta in stampa» acclusa alla Terra di San Paolo che Cavagliati inviò al Duca. È possibile vederla presso l’Archivio storico di Mantova, Fondo Gonzaga.
L’uso di dare a chi la chiedeva la «fede scritta» confermante l’autenticità della terra si protrasse per alcuni secoli: dalla metà del XVI alla metà del XIX. Ancora oggi, presso l’archivio della grotta a Rabat, è possibile vedere il formulario della «Testimoniale che si dà insieme colle Pietre della Sagra Grotta di San Paolo a chi la dimanda», e nella quale è descritta esplicitamente la forma del sigillo da appore sulla terra «in cera rubra hispanica impresso signata».
Uno studio completo sull’argomento non esiste; nel 1737 fu redatto da Johann Christian Kundmann un primo breve catalogo di tali sigilli, contenuto nel suo Rariora naturae et artis, item in re medica, Leipzig 1737.
Una variante interessante della Terra Sigillata Melitensis, che per così dire racchiude al tempo stesso l’autenticità del prodotto ed un suo utilizzo affatto peculiare, sono le coppe contra veleno. George Zammit-Maempel, nel 1975, ha pubblicato un saggio in cui descrive le iscrizioni delle due sole coppe contra veleno rimaste: una conservata nel British Museum di Londra e l’altra attualmente visibile nella teca delle Terre Sigillate, presso il Museo di Palazzo Poggi di Bologna.
Chi scrive ha studiato quest’ultima, catalogata come pezzo proveniente della Wunderkammer di Ferdinando Cospi.
In realtà, nel repertorio del Museo Cospiano, redatto da Lorenzo Legati nella seconda metà del Seicento, ed oggi conservato presso il Museo Medioevale del capoluogo emiliano, la coppa non compare, e dunque si tratterebbe di una falsa attribuzione.
A chi apparteneva allora la coppa felsinea? Un mistero al momento insoluto; ma questa è un altra storia.
Le «coppe sigillate» contra veleno venivano usate per il consumo quotidiano di bevande. Bere acqua, vino o altri liquidi da una tazza fatta di Terra Sigillata Melitensis corrispondeva a bere un qualcosa in cui fosse stata disciolta la Gratia Sancti Pauli.
Si può capire così il successo di questo sistema, molto pratico per i pellegrini, ma anche in considerazione del fatto che l’avvelenamento era, ai tempi, una delle modalità più diffuse per togliere di mezzo un avversario; l’arsenico costituiva il veleno più usato a tale scopo per la sua facile solubilità in acqua calda e per la quasi totale assenza di particolare sapore quando misto nel cibo.
L’ossido arsenioso, o arsenico bianco, erano poi il preferito fra tutti; proprio contro tali veleni era ritenuta infallibile la Terra Sigillata.
La richiesta di questi oggetti era tale, e la delicatezza del ruolo terapeutico così evidente, che la loro produzione e distribuzione pare fossero controllate dalle autorità ecclesiastiche e supervisionate dal Gran Maestro dell’Ordine in persona. Naturalmente, la fama delle coppe si diffuse soprattutto presso le corti e i palazzi nobiliari d’Europa.
Le già citate lettere del Cavagliati al Duca di Mantova degli anni 1620-22, forniscono in proposito una importante testimonianza. In esse, infatti, più volte si legge dell’invio a Ferdinando Gonzaga di cassette «di terra di San Paulo contro li veneni», contenenti «lavorati vasi».
La coppa felsinea è, da un punto di vista simbolico, estremamente interessante. Sui frammenti rimasti, infatti, è possibile vedere chiaramente sia il volto del Santo inscritto all’interno di una croce maltese, sia le figure chiarissime dei tre animali corrispondenti ad altrettanti veleni dai quali la coppa guariva: scorpione, serpente e ragno.
Sono anche gli animali simbolici del tarantismo che, come vedremo, sarà sussunto progressivamente, sino alla sua apparente scomparsa, proprio dal culto del Santo guaritore.
Le proprietà curative
Giacomo Buonamici scrisse, rifacendosi all’opera De metallis di Ulisse Aldrovandi, che già nel XVI secolo medici illustri, come Falloppio, affermavano «potersi la terra di Malta sicuramente adoprare negl’antidoti reali invece della terra lemnia, e che presane della medesima una dramma proibisce la putredine nelle vene, raffrena il flusso del sangue e soccorre i fanciulli travagliati dalle valoire (le pustole del vaiolo n.d.a.) e da vermini». La terra lemnia era un composto proveniente dall’isola greca di Lemno con proprietà curative simili a quella maltese.
Conferma nell’uso della terra di Malta contro il vaiolo e la febbre ci vien data anche dal viaggiatore inglese Patrick Brydone che nel 1770 visitò la Sicilia e Malta. Della Terra di San Paolo scrisse che è «una specie di pietra biancastra la quale ridotta in polvere pare sia un rimedio sovrano in molti disturbi. Salva migliaia di vite ogni anno e non v’è casa nell’isola che non ne sia provvista. Ci dicono anche che molte scatole di questa polvere vengono spedite ogni anno non soltanto in Sicilia e in Italia, ma anche in Levante e nelle Indie Orientali… La polvere mi sembra del tutto innocua. Ne ho assaggiato un po’: ha un cattivissimo sapore di magnesia, e penso che abbia press’a poco gli stessi effetti. Ne danno circa un cucchiaino ai bambini quando hanno il vaiolo o la febbre. Dopo circa un’ora, provoca sudori abbondanti e a quanto dicono non manca mai di recare sollievo».
Altra virtù della Terra di San Paolo, secondo Claudius Shaw nel suo Malta sixty years ago, Londra 1875, era quella di salvaguardare da possibili naufragi. A tale scopo, in passato, i visitatori erano incoraggiati a scheggiare e a portar via un pezzo di calcare dalla parete rocciosa della grotta, e un piccone era sempre tenuto a portata di mano per essere usato dal guardiano della cripta o dai visitatori stessi. Nel secolo XVIII troviamo la Terra Sigillata Melitensis in un quaderno del 1731 per i farmaci preparati a mano nell’elenco dei prezzi delle sostanze medicinali vendute al pubblico dalla farmacia dell’Ospedale Santo Spirito di Rabat.
Ma di cosa era fatta realmente la Terra Sigillata Melitensis? Oltre alla Gratia Sancti Pauli dovuta al suo carisma, aveva proprietà curative anti velenose oggettivamente dimostrabili? George Zammit-Maempel ha fatto analizzare, negli anni Settanta del secolo scorso, alcuni frammenti della grotta di San Paolo da esperti dei Dipartimenti di Antropologia e di Mineralogia del British Museum.
Dagli esami scientifici è stato appurato che il calcare è costituito «pressoché da una pura calcite con 95,5% di carbonato di calcio e solo 0,5% ossido di silicio in qualità di impurità». Pertanto alcune delle proprietà curative della Terra Sigillata sarebbero riferibili a quelle del carbonato di calcio, ancora oggi in uso come assorbente gastrointestinale e, somministrato per bocca, come antidoto negli avvelenamenti lievi.
Per le sue specifiche proprietà protettive, infatti, il carbonato di calcio è in grado di ritardare o evitare l’assorbimento, e dunque il passaggio in circolo del veleno, nonché eliminare le tossine organiche che possono provocare una sindrome diarroica. È dunque scientificamente plausibile che bere dalle coppe ricavate dal calcare proveniente dalla Grotta di San Paolo abbia potuto aiutare coloro i quali avessero ingerito modiche quantità di veleno, proprio grazie alla reazione dell’arsenico con il carbonato di calcio allo stato quasi puro.
Anche se la fama della Terra Sigillata non è più la stessa, a cagione di contra veleni più efficienti o di veleni molto più potenti, ancora fino agli Anni Venti e Trenta del secolo scorso le madri dell’isola erano solite appendere al collo dei neonati piccoli sacchetti di stoffa, gli «abitini», contenenti la Terra di San Paolo a protezione della salute dei loro bambini.
A questo proposito si deve citare anche un altro contra veleno legato al Santo, la cosiddetta glossopetra, o «lingua di serpente» pietrificata; in realtà un dente di squalo fossile cui veniva attribuita una simile proprietà.
La lingua di serpente
La «lingua di serpente» fa specifico riferimento alla credenza secondo la quale il Santo Apostolo, dopo il morso della vipera, convertì i serpenti velenosi che lo avevano morso, in sassi. Per cui le glossopetre (lingue di pietra), in realtà denti di squalo fossili che abbondano sull’isola e che si trovano racchiuse nella roccia maltese, altro non rappresentano se non le lingue di quei serpenti maledetti. Ma la «maledizione» del santo, per un effetto rivulsivo ben conosciuto nella magia naturale, li aveva resi «benedetti», dunque sicuri controveleni, per cui negli stessi secoli della Terra Sigillata, le glossopetre vengono usate come antidoto.
Da questa credenza si svilupparono diversi amuleti, il più comune tra i quali è certamente quello composto, ancora oggi – benché l’originale significato sia ignoto ai più – da un dente di squalo.
L’effettiva origine delle glossopetre era in realtà conosciuta già in età romana, anche se prima della scoperta della loro origine organica e fossile restavano avvolte dal mistero. Plinio, ad esempio, nel suo Naturalis historia, attribuiva loro origine celeste affermando che esse non nascono in terra, ma «cadono dal cielo nelle buie notti senza luna».
Ignazio Giorgio testimonia che, ancora ai suoi tempi (scriveva nel 1730), uomini inesperti ritenevano le glossopetre «strali fulminei oppure saette celesti cadute con la pioggia dalle nubi», e questo per l’evidente somiglianza che i fossili avevano con le punte delle frecce.
Anche Giovanni Francesco Abela, Giovanni Francesco Buonamici e Giovanni Antonio Ciantar e molti altri scrittori e studiosi europei del XVI, XVII e XVIII secolo non si allontanarono molto da questa spiegazione, convinti come erano che le glossopetre, come le gemme, venissero spontaneamente generate dalle rocce e in particolar modo dalle rocce maltesi.
In controtendenza l’estensore del catalogo del Museo Cospiano, Lorenzo Legati, cita Stenone ed il suo De solido intra solidum naturaliter contento, ove si afferma che si tratta probabilmente di denti di Cane Cercaria, cioè pesce-cane, e che essi sono emersi con l’isola dal fondo del mare a seguito di un fenomeno sismico. Per quello che concerne il loro potere anti venefico, Legati conferma che «hanno virtù simili alla terra bianca di Malta».
Santo Paolo mio delle tarante
Il tarantismo è un fenomeno peculiare della religiosità meridionale, circoscritto alla Puglia ed in particolare alle zone di Lecce, Brindisi e Taranto. Qui ci limitiamo a ricordare, come afferma De Martino nel suo La terra del rimorso, che il tarantismo ha rappresentato, nella specifica situazione del Sud dell’Italia di ascendenza magno-greca, una forma resistenziale alla penetrazione ed all’invadenza della cultura cristiana.
Già dopo la conquista di Taranto, nel 280 a.C., i romani avevano cercato di reprimere il dionisismo indigeno; poi il nascente cristianesimo si era incaricato di ridurre il tarantismo ad una forma di mania, di possessione. Qui entra in gioco il ruolo «terminale» esercitato sul rituale coreutico musicale – originariamente totalmente pagano, a base di musica e ballo, sospensioni a funi ed immersioni in specchi d’acqua – dalla figura di «Santo Paolo mio delle tarante», utilizzato dalla chiesa per sterilizzarne le valenze dionisiache ed amministrare la forza eversiva della possessione.
Sparì con la vittoria cristiana, dice Elémire Zolla nel suo Il dio dell’ebbrezza, la percezione dell’identità di tragedia e commedia, lo sprofondamento nella vita animale e vegetale, per non dire nella sostanza minerale; la libertà con tutti i suoi rischi, la liberazione delle donne e degli schiavi per i giorni di Dioniso.
«Come concordemente dimostrano testi e monumenti, Dionysos era il dio più importante della regione tarantina: nel corso delle dionisie tutta la città versava in stato di ebbrezza», dice De Martino descrivendo l’ascendenza dionisiaca del tarantismo.
Riferendosi alle pose ritratte nelle fotografie dei tarantolati, scattate in Salento nell’estate del 1959, con specifico riferimento al «completamento» dell’esorcismo coreutico musicale all’interno della cappella di San Paolo a Galatina, lo studioso afferma che le posture: «Accennavano a una pesante storia alle spalle di questi così eccentrici personaggi, una storia che segnalava in qualche dove, in un quando e in un come, determinate battute d’arresto del processo di espansione della civiltà cristiana».
Fondamentale, a questo punto, l’affermazione che i tarantolati, o meglio le tarantolate, data la maggioranza del genere femminile all’interno di questa forma di “possessione”, sono assimilabili alle menadi, alle baccanti dionisiache, alle coribanti; insomma «a tutti quei fenomeni che nel mondo antico partecipavano a una vita religiosa percorsa dall’orgiasmo e dalla mania».
E certo la chiesa cattolica non poteva che respingere in toto la figura della tarantolata-menade, della donna libera e ribelle all’autorità maschile e, di conseguenza, proprio secondo i dettami di San Paolo stesso, a Dio. Infatti, seguendo la gerarchia stabilita dall’Apostolo delle Genti nella prima lettera ai Corinzi: Dio è il capo del Cristo, e questi è il capo dell’uomo, mentre il capo della donna è l’uomo, onde la donna «riflette Dio attraverso la mediazione dell’uomo».
Questa gerarchia, oltre a giustificare la predominanza del principio maschile e patriarcale all’interno della comunità cristiana, spiega il perché l’uomo può stare a capo scoperto durante le assemblee liturgiche, mentre la donna deve coprirsi il capo come segno della sua soggezione a Dio attraverso la sua soggezione all’uomo.
Possiamo ben immaginare cosa potesse significare, per l’ordine simbolico vaticano, e non solo, una chioma libera, come quella delle menadi-tarantolate, a maggior ragione mentre i lunghi capelli scomposti fluttuavano nell’aria ondeggiando al ritmo indiavolato della tarantella. Addirittura, come riferisce il medico De Raho nelle sue osservazioni dirette: «Le inferme sono discinte, hanno capelli sciolti, arruffati e non si preoccupano della nudità che spesso mostrano».
Il ruolo di San Paolo nel «lento processo di disgregamento del tarantismo», come dice De Martino, nasce circa nel ‘700 con la cappella a lui dedicata in Galatina, con annesso pozzo di acqua miracolosa. L’antefatto fa riferire il tutto ad una supposta presenza del Santo in terra d’Otranto, di cui non vi è nessuna evidenza storica a sostegno, se non la fede popolare.
Dunque, verso la prima metà del ‘700 vi era in Galatina una Casa di San Paolo, riferisce ancora De Martino, con un pozzo di acqua miracolosa presso il quale i tarantolati venivano portati a bere per ricevere la grazia e così guarire. In quegli anni erano presenti numerosi sanpaolari, che naturalmente pretendevano di discendere dalla stirpe del Santo.
Nel 1752 Don Nicola Vignola acquista il comprensorio ed erige l’attuale cappella, con il piccolo altare sul quale campeggia il dipinto del Santo circondato dalle serpi, con annesso il pozzo di acqua miracolosa. Sino alla prima metà dell’800 è questa l’attrazione che lega il culto del Santo ai tarantolati, essendo l’acqua rinomata per curare il «morso reale» di animali velenosi: serpenti, scorpioni e tarante.
Lentamente, sotto la spinta della chiesa e delle istituzioni secolari, l’esorcismo originario viene, dapprima completato da un passaggio alla cappella di Galatina, poi totalmente sussunto in esso sino a «disgregare il tarantismo in una serie di grotteschi ibridismi senza avvenire, e soprattutto in una serie di crisi senza orizzonte». Trasportato nella cappella, amputato dell’esorcismo musicale e di tutti i simbolismi di evocazione e di deflusso che in quell’esorcismo entravano in azione, il tarantismo si spogliava in questo modo di ogni dignità culturale, di ogni efficacia simbolica, e recedeva al livello di singoli episodi morbosi.
E così l’Apostolo delle Genti, fattosi semplice esorcista con i tarantolati, ha oramai perso l’immenso ardore apostolico di quel ut omnes facerem salvos che un tempo emanava anche dalla Terra Sigillata Sancti Pauli.
Raffaele K Salinari