Tempo della Fine, Fine del Tempo
Per l’Occidente cristiano e il suo Evo, il Tempo della Fine non è la Fine del Tempo ma solo l’inizio del Tempo Nuovo, quello della Salvezza per chi ha sempre creduto al messaggio del Cristo e della sua Chiesa; per questo l’istituzione ecclesiale deve qui ed ora riappropriarsi in toto della sua missione escatologica rendendosi testimonianza vivente della rivelazione cristiana, pena non solo l’inutilità come veicolo della Salvezza ma, sommo abominio, divenire essa stessa corpo dell’Anticristo: assumerne le forme progressivamente secolarizzate sino ad identificarsi con il Mysterium iniquitatis, il mistero del male.
Nel difficile chiasma tra essere-nel-mondo per il mondo ed essere-nel-mondo per testimoniare una Salvezza che di fatto lo trascende, in questa vera e propria aporia, vive l’autentica teologia politica: non la semplice influenza esercitata sulle forme della politica mondana dalle idee religiose, bensì l’orientamento e la destinazione politica consustanziale alla vita della religione.
In questa prospettiva apocalittica, come vedremo analizzando il testo della profetica Seconda lettera ai Tessalonicesi di San Paolo, si confrontano l’Anticristo ed il misterioso «potere che lo frena», il katechon, che però dovrà togliersi di mezzo al momento opportuno, quando il Salvatore spazzerà via l’Avversario col soffio della sua bocca.
Il corpo bipartito della Chiesa
Molto si è congetturato sulla natura di questo «potere che frena» ma, per alcuni, sino dall’inizio della cristianità, esso convive ed opera all’interno stesso della Chiesa insieme al potere dell’Anticristo. Così ci ammonisce l’antico teologo Ticonio nel suo Commento all’Apocalisse risalente al IV secolo, nel quale sostiene la teoria del «corpo bipartito della Chiesa»: la compresenza di una sua parte fusca ed una sua parte decora, come si definisce la sposa nel Cantico dei cantici (1,4).
Secondo Ticonio la Chiesa nera (fusca) appartiene all’Anticristo mentre la bella (decora) è schierata con il Salvatore. Questa tesi, centrale per comprendere le motivazioni teologico politiche delle dimissioni di Papa Benedetto XVI, era stata assunta sic et simpliciter dal giovane teologo Ratzinger.
Meditando su questo mysterion, al quale egli dedica una riflessione già nel lontano 1956 – dunque ben prima della sua ascesa al Soglio di Pietro – Papa Benedetto XVI ha compiuto la sua scelta, il suo «gesto esemplare», come lo definisce Giorgio Agamben ne Il mistero del male, Benedetto XVI e la fine dei tempi.
Il testo delle dimissioni situa la decisione papale nel «contesto teologico ed ecclesiologico che le è propria», arrivando, tuttavia, a trarne le conseguenze «per la situazione politica delle democrazie in cui viviamo».
Le motivazioni di Benedetto XVI, la sua analisi della situazione odierna della Chiesa rispetto alle «cose ultime», il suo avvertire che all’interno della Istituzione le forze dell’Avversario, la Chiesa fusca, sembra aver preso il sopravvento su quella decora, lo hanno spinto all’azione eclatante delle dimissioni per ricordare, dice Agamben, che non è possibile che la Chiesa sopravviva se rimanda alla fine dei tempi la soluzione del conflitto che ne dilania il «corpo bipartito».
Come il problema della legittimità, così anche il problema di ciò che è giusto non può essere eliminato dalla vita storica della Chiesa, ma deve ispirare ogni istante la consapevolezza delle sue decisioni nel mondo. Se si finge di ignorare, come spesso ha fatto la Chiesa, la realtà del corpo bipartito, la Chiesa fusca finisce col prevalere su quella decora e il dramma escatologico perde ogni senso.
Per definire il sintagma «dramma escatologico» è però necessario tracciare una vera e propria filologia, quasi una “interpretazione autentica”, del termine «dramma», muovendo dall’assunto che il Mysterium iniquitatis della seconda lettera ai Tessalonicesi non è un arcano sovratemporale, il cui unico senso è di porre fine alla storia e all’economia della salvezza: è un dramma storico (mysterion in greco significa ‘azione drammatica’), che è in corso per così dire in ogni istante e in cui incessantemente si giocano le sorti dell’umanità, la salvezza o la rovina degli uomini.
E così Ratzinger ha voluto riportare all’attenzione della riflessione politico teologica della Chiesa e del suo Evo il Mysterium iniquitatis, il «mistero del male», come componente essenziale della rivelazione cristiana e, con esso, il tema e la natura della Chiesa come kathecon, l’enigmatico «potere che trattiene» il Tempo della Fine, quando l’Anticristo sarà definitivamente sconfitto dal ritorno del Salvatore.
La seconda lettera ai Tessalonicesi
Dice dunque Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi (2, 1-12), già ampiamente commentata da Carl Schmitt come base della relazione tra teologia e politica nella fondazione e nella supposta superiorità dello Jus Publicum Europaeum: “Ora vi preghiamo, fratelli, a proposito della parusia del Signore nostro Gesù Cristo e della nostra riunione in Lui, che non vi facciate subito turbare né stoltamente spaventare, né da ispirazioni, né da parole, né da lettera fatta passare per nostra, come fosse imminente il giorno del Signore. Che nessuno vi inganni in nessun modo! Infatti, prima dovrà venire l’apostasia (discessio) e l’apocalisse dell’uomo dell’anomia (homo iniquitatis), il figlio della apoleia, (filius perditionis) l’Avversario (qui adversatur), colui che si innalza sopra ogni essere che viene detto Dio e come Dio è venerato, fino ad insediarsi nel tempio di Dio e a mostrare se stesso come Dio. Non ricordate che quando ero ancora con voi vi dicevo queste cose? E ora conoscete ciò che trattiene (to katechon) la sua apocalisse, che avverrà a suo tempo. Già, infatti, il mistero dell’iniquità è in atto; ma chi trattiene (ho katechon) trattenga, precisamente fino a quando non venga tolto di mezzo. Allora sarà l’Apocalisse dell’Anomos (Iniquus), che il Signore Gesù distruggerà con il soffio delle sua bocca; annienterà all’apparire della sua parusia l’Anomos la cui parusia appare invece secondo l’essere in atto di Satana in ogni potenza e segni e falsi prodigi e con tutti gli inganni dell’ingiustizia per coloro che si perdono perché non hanno accolto l’amore della verità per la loro salvezza. E per questo Dio invierà loro la potenza dell’inganno, affinché credano alla menzogna e siano così giudicati tutti quelli che non ebbero fede nella verità, ma acconsentono all’iniquità”.
Il Tempo di mezzo
Questa verità escatologico profetica è l’essenza del messaggio cristiano e di conseguenza lo scopo stesso della Chiesa che, senza la sua permanente relazione con il Tempo della Fine si perde nel tempo profano in cui prevalgono le cure secolari; trionfa così l’anomia, intesa non come semplice assenza delle regole, ma del prevalere di quelle totalmente immanenti al secolo, desacralizzate, dettate e gestite dall’Avversario: un quadro drammaticamente attuale che prefigura lo smarrirsi irreversibile della rivelazione cristiana, della verità della Salvezza eterna come legge suprema dalla cui Autorità trascendente discendono tutte le altre.
La perdita dell’orizzonte escatologico, sostiene Agamben, ha dunque motivato le dimissioni di Benedetto XVI che, col suo gesto: “Ha riportato alla luce il mistero escatologico in tutta la sua forza dirompente; ma solo in questo modo la Chiesa, che si è smarrita nel tempo, potrà ritrovare la giusta relazione con la fine dei tempi. Vi sono, nella Chiesa, due elementi inconciliabili e, tuttavia, strettamente intrecciati: l’economia e l’escatologia, l’elemento mondano-temporale e quello che si mantiene in relazione con la fine del tempo e del mondo. Quando l’elemento escatologico si eclissa nell’ombra, l’economia mondana diventa propriamente infinita, cioè interminabile e senza scopo. Il paradosso della Chiesa è che essa, dal punto di vita escatologico, deve rinunciare al mondo, ma non può farlo perché, dal punto di vista dell’economia, essa è del mondo, e non può rinunciare a questo senza rinunciare a se stessa. Ma proprio qui si situa la crisi decisiva: perché il coraggio – questo ci sembra il senso ultimo del messaggio di Benedetto XVI – non è che la capacità di mantenersi in relazione con la propria fine”.
Ecco che l’orizzonte teologico politico informa di sé il ruolo della Chiesa come parte, o addirittura fondamento, qui ed ora, di quel misterioso potere catecontico che frenerebbe il pieno manifestarsi dell’Anticristo, sino a che, toltosi di mezzo, il Signore avvenga e lo spazzi via definitivamente compiendo il Tempo della Fine, il Giudizio Universale, separando per l’eternità i salvati dai persi.
Ma, se questo tempo è già in atto, l’urgenza posta alla Chiesa dal Mysterium iniquitatis che ogni momento spinge l’Anticristo a prendere maggior potere sul mondo, deve trasformarsi in atti concreti e radicali subito. La presenza nel «tempo di mezzo», tra il primo avvento ed il definitivo, non può essere vista e vissuta come semplice attesa dell’approdo finale, ma come ispirazione escatologica delle scelte quotidiane che l’istituzione ecclesiale deve attuare ogni momento per rimanere in relazione adesso con la rivelazione del messaggio cristiano e mettersi così dalla parte dei salvati nel Giorno del Tempo della Fine, cioè ogni giorno.
Il gesto di Benedetto XVI sarebbe allora espressione della volontà di riaffermare questo difficile equilibrio della Chiesa tra mondo e escaton, la sua «capacità di agire nell’intervallo tra la prima e la seconda venuta, cioè nel tempo storico che stiamo vivendo», poiché una società può funzionare, sostiene l’autore, solo se la giustizia (che nella Chiesa corrisponde all’escatologia) non resta una mera idea ma riesce a trovare espressione politica in una forza capace di «controbilanciare il progressivo appiattimento su un unico piano tecnico economico» dei principi di legittimità e legalità, Auctoritas e Potestsas – potere temporale e potere spirituale – che rappresentano il patrimonio più prezioso della cultura europea.
Ora, il nostro problema è: come eventualmente investire questo patrimonio? È ancora possibile ripensare un governo dell’oggi a partire da questi principi? O dobbiamo radicalmente ridefinirli facendoli rinascere da una sacralità immanente e non trascendente, orientarci verso un uovo escaton?
Il «potere che frena»
Queste riflessioni, partendo dalla natura del «potere che frena» per arrivare ad una analisi sub specie teologico politica della realtà del mondo globalizzato, sono anche oggetto del libro di Massimo Cacciari Il potere che frena.
Il testo sviluppa l’ambiguo rapporto tra seculum e tempo apocalittico per arrivare ad abbracciare il problema contingente del «governo della globalizzazione», visto come politicamente impossibile proprio per la mancanza di una Auctoritas di ascendenza cristiana, cioè trascendente: l’escaton che informi di sé la Potestas delle leggi mondane: ”Da parte sua, neppure la sovranità politica potrà ‘reggere’ se destituita da qualsiasi effettuale rimando al principio di autorità”, sostiene esplicitamente Cacciari.
Il saggio storicizza la Seconda lettera ai Tessalonicesi di San Paolo per esaminare le forme o nature che, via via nel tempo e nelle diverse situazioni, sono state attribuite al katechon. Si parte da quelle più accreditate, l’Impero romano o la nascita della Chiesa stessa, per arrivare alla soglia che porta all’oggi, l’attuale regno dell’anomia, il momento apocalittico in cui si manifesterebbe appieno il regno dell’Avversario ed ogni potere catecontico del «sapere, ricordare, prevedere» si esaurisce poiché, secondo la profezia paolina, deve farsi da parte.
E così, conclude Cacciari nell’ultimo capitolo del saggio, L’età di Epimeteo, che ben definisce il cambio di fase dall’epoca prometeica, in cui l’umanità sembrava allontanarsi da una prospettiva di «bene comune» per perseguire quella epimeteica dominata dal particulare: “Muta il senso della saggezza politica. Quella del katechon ‘classico’ studiava, sì, il possibile, ma non rinunciava a speculare sull’ottimo. La sua forma era, sì, intessuta di temperanza e mesotes, e tuttavia mai riducibile a techne, poiché ribadiva in ogni aspetto la propria provenienza ‘dall’alto’. Per poter contenere, il katechon pensava necessaria una sophia capace di rappresentare il ‘bene comune’, e il Comune non potrà mai risultare dalla somma degli interessi particolari”.
Ecco che, allora: “Il dissolversi della forma catecontica si origina dal suo stesso interno, viene da noi, come si è visto. Inizia con la critica dell’idea di impero, prosegue con quella di ogni ‘dio mortale’, corrode infine, logicamente filosoficamente la realtà dello Stato, lo desostanzializza, lo spoglia di ogni Auctoritas, ne denuncia la natura di finzione ideologica, dimostra l’impossibilità di superare il piano assolutamente orizzontale della rete di conflitti e degli interessi”.
L’Evo dell’insecuritas
Qui riecheggia il Carl Schmitt del Nomos della terra, in cui il giurista tedesco metteva in guardia dai poteri globalizzati ben prima che questi dominassero il mondo con la pervasività che ben conosciamo.
Ma allora oggi, senza territorializzazione del potere, senza quella justissima tellus incarnata da stati o istituzioni realmente sovranazionali e condivisi, e senza una Chiesa realmente testimone della Salvezza perché scossa sino alle fondamenta da un Mysterium iniquitatis che sembra scaturire dal suo stesso corpo, quale legittimità hanno i poteri che dicono di voler governare la globalizzazione?
O meglio, è ancora in oggetto questo problema, oppure le dinamiche prevalenti hanno totalmente affermato uno stato di piena anomia, intesa non come anarchia, ma come una serie di norme particolari e indipendenti che rispondono solo all’edonismo dei singoli o all’accumulazione del profitto “finché dura”?
La risposta di Cacciari è coerente con le sue premesse apocalittiche: “Il pensiero conservatore ritiene che questo passaggio segni la vittoria del chaos e dell’anomia come chaos. Ma non è affatto così. Quello dell’anomia, come già si è detto, è un sistema; è anzi il sistema–mondo. In esso è impensabile un ordine ‘territorializzato’ come quello sempre presupposto dal katechon. È impensabile una fonte del potere che ne trascenda il funzionamento immanente, un’idea da cui il suo esercizio dipenda e a cui esso si richiami”.
Qui dunque viene a definirsi il concetto di anomia della globalizzazione come: “Un tempo ‘libero’ da determinatezze spaziali, in cui l’individuo non tollera di essere ‘rappresentato’ se non dall’impersonale delle norme che sembrano alla base del funzionamento e del successo di quelle potenze da cui egli riconoscere dipendere la propria vita”.
Ecco che, infine, la parabola teologica incrocia quella biopolitica, creando un precipitato in cui il potere che decide sulla vita e la morte della «nuda vita» sembra divenire la Weltanschauung stessa dell’individuo globalizzato: la teologia politica viene annichilita dalla biopolitica liberista, oppure, seguendo l’interpretazione del ruolo della Chiesa fusca secondo Ticonio, diviene teologia biopolitica tout court.
A questo punto un Potere Sovrano, che volesse realmente governare The Globe, dovrebbe riassumere ancora in sé le categorie dell’Auctoritas e della Potestas per fermare l’anomia del sistema-mondo; ma per Cacciari questo non è più possibile.
”Qui emerge ‘l’apocalittica’ aporia. Non può darsi Nomos del Mondo, esistono solo queste leggi determinate. E, oltre ad esse, esistono forze, potenze decisive, che operano sul piano globale e producono in base alle norme interne al proprio funzionamento”.
Che fare allora, quale prospettiva si apre in questa situazione? Le conclusioni sono da una parte analitiche e dall’altra apocalittiche, epimeteiche appunto. In sostanza il filosofo veneziano annuncia l’apertura di un periodo dalla durata non prevedibile, uno spazio di «permanente crisi», di insecuritas, in cui da una crisi si passerà all’altra senza soluzione di continuità; crisi più o meno governate e gestite parzialmente da élites globali che, però, non possono tendere al controllo complessivo delle cose proprio per quella mancanza di Auctoritas che essi stessi hanno progressivamente distrutto con la loro discessio, la loro apostasia.
E così: “Quello di Epimeteo sarà piuttosto l’Evo dell’insecuritas e delle crisi permanenti: teologicamente esso può rappresentare l’ultimo spasmo del tempo prima della Decisione; politicamente la sua durata è imprevedibile”. Siamo allora nel pieno di una «crisi del politico» poiché in questa situazione: “Ogni forma politica finisce necessariamente col tendere a divenire funzione di quelle stesse potenze fisiologicamente insofferenti del suo primato”.
Ricostruire l’Evo partendo dalla sacertà dell’esistente.
La chiusura del saggio riecheggia le profezie abissali di Carl Schmitt e la sua richiesta di ripristinare i Grossraum, i “grandi spazi” geopolitici che, forse, seppur in conflitto tra di loro, in un futuro non prevedibile potrebbero assicurare una certo equilibrio alla fase attuale, anche se uniti soltanto dalla comune apostasia verso l’Evo cristiano. E dunque, «Prometeo si è ritirato» o è tornare ad essere incatenato alla sua roccia, costretto a guardare il fratello Epimeteo scoperchiare sempre nuovi vasi di Pandora.
Quella di Cacciari- e in parte anche di Agamben – è, in definitiva, una sfida radicale al pensiero paleo-prometeico della sinistra, ancora incapace di cogliere lo spirito dei tempi e di conseguenza adattare le sue forme di pensare il politico per agire in questa situazione desacralizzata. Se la sua analisi, a nostro parere estremamente suggestiva e feconda, fosse assunta nelle premesse, ma non necessariamente nelle conclusioni, l’orizzonte segnerebbe la ricostruzione di un nuovo Evo, ma questa volta sulla base simbolico fattuale di un nuovo escaton: la sacertà immanente a ogni forma di esistenza. Certo un lavoro da nuovi Titani.
Raffaele K. Salinari