Il business delle risorse minerarie e quello degli aiuti umanitari
A CHI GIOVA IL CONFLITTO
L’instabilità perenne di questa zona del mondo fa comodo a molti. Anche alle Nazioni Unite La Francia continua la sua azione di guerra contro le basi dei guerriglieri islamisti in Mali, oramai diventato il «secondo fronte» della Libia, anch’essa sostanzialmente instabile dopo le azioni Nato contro Gheddafi. In Repubblica Centro Africana i ribelli del Nord hanno sospeso la loro avanzata verso la capitale Bangui per partecipare ai colloqui che dovrebbero finalmente portare al loro reinserimento nei ranghi dell’esercito governativo, come promesso oramai tre anni or sono. In Repubblica Democratica del Congo l’alternanza tra scoppi di guerriglia, in questo momento gestita dal movimento M23, e relativi cessate il fuoco, destabilizza perennemente la regione dei Grandi Laghi, che vanta anche il triste primato della presenza dell’Esercito di Liberazione del Signore di Joseph Kony, in continua azione in Uganda.
Il quadro, già preoccupante di per sé, si estende al Sud Sudan e al Ciad, creando una vastissima area di crisi permanente in cui le cancellerie europee, ma anche quella statunitense, non sembrano aver voglia di intervenire se non sporadicamente, e con azioni che risolvono i problemi creati da loro stessi, generandone così di nuovi.
E infatti, come detto, la crisi maliana è diretta filiazione di quella libica, così come, se ripercorriamo a ritroso le vicende del Congo e della Repubblica Centro Africana, troviamo sempre la stessa formula «afgana». In altre parole creare un movimento di guerriglia, o sostenere un dittatore, per sconfiggere il nemico di turno, per poi doversela vedere con lui qualche anno dopo. Ora la domanda è: chi ha interesse a creare questa vasta area di instabilità nel cuore dell’Africa sub sahariana? A chi giovano queste continue guerriglie, con il seguente corteo di tentativi di colpi di Stato, rifugiati esterni e interni, traffico d’armi e via enumerando? La risposta è a molti livelli, tutti però strettamente connessi tra di loro.
Il primo livello è certamente quello degli Stati e dei Governi ex coloniali, Francia ed Inghilterra in testa, ma anche Belgio, che possono così continuare a condizionare le economie delle loro terre d’oltremare attraverso il controllo militare dei territori. Anche gli Usa con il Comando Africa (Africom) vorrebbe fare lo stesso, ma ancora non sono riusciti a stabilirsi solidamente sul suolo africano. I secondi protagonisti di questa tragedia continentale sono le multinazionali minerarie, diamantifere e del legno, che possono concludere accordi con i gruppi di guerriglia per la fornitura di ciò che vogliono, al prezzo più conveniente. Non dimentichiamo che Lumumba, così come Kabila padre, furono uccisi proprio perché esigevano prezzi più equi sulle materie prime del loro Paese. E poi, ancora, ci sono i fornitori di armi leggere e meno.
Nella crisi maliana, ovviamente in modo propagandistico, viene evidenziata la supposta origine iraniana delle armi automatiche dei guerriglieri islamici, senza menzionare l’origine occidentale dell’arsenale di Gheddafi e dunque della gran parte delle armi usate in Mali. Ultimi «beneficiari» della situazione sono certamente gli enti internazionali che gestiscono i rifugiati interni ed esterni, e che spingono sui donatori per avere i fondi necessari. Ora se pensiamo che le Nazioni Unite sono in deficit permanente di sostegno, e che le promesse occidentali per realizzare gli Obiettivi di sviluppo del Millennio non sono state onorate, si capisce anche quanto una crisi importante, mediaticamente significativa, possa aiutare le esangui casse dell’Onu. Ma non finisce qui. In realtà il quadro generale è molto più ampio e ci ricorda che questa parte d’Africa è la più soggetta alle ferree leggi della biopolitica, cioè alla necessità, come diceva Foucault, del liberismo di governare le nude vite al fine di ricavarne la massina plusvalenza. In altre parole, se noi europei e nordamericani abbiamo un’impronta ecologica che ci costa il doppio della terra di cui disponiamo, dove trovare queste risorse se non nel continente africano? E quale modo migliore che la permanente instabilità di una zona del mondo estremamente ricca? Certo un po’ di cooperazione e specialmente di aiuto umanitario non si nega a nessuno, ma mai tanto da sostenere vere democrazie e i diritti umani, sennò da noi la crisi porterebbe i movimenti di guerriglia dalle sabbie del Sahara a Place de la Concorde.
Il quadro, già preoccupante di per sé, si estende al Sud Sudan e al Ciad, creando una vastissima area di crisi permanente in cui le cancellerie europee, ma anche quella statunitense, non sembrano aver voglia di intervenire se non sporadicamente, e con azioni che risolvono i problemi creati da loro stessi, generandone così di nuovi.
E infatti, come detto, la crisi maliana è diretta filiazione di quella libica, così come, se ripercorriamo a ritroso le vicende del Congo e della Repubblica Centro Africana, troviamo sempre la stessa formula «afgana». In altre parole creare un movimento di guerriglia, o sostenere un dittatore, per sconfiggere il nemico di turno, per poi doversela vedere con lui qualche anno dopo. Ora la domanda è: chi ha interesse a creare questa vasta area di instabilità nel cuore dell’Africa sub sahariana? A chi giovano queste continue guerriglie, con il seguente corteo di tentativi di colpi di Stato, rifugiati esterni e interni, traffico d’armi e via enumerando? La risposta è a molti livelli, tutti però strettamente connessi tra di loro.
Il primo livello è certamente quello degli Stati e dei Governi ex coloniali, Francia ed Inghilterra in testa, ma anche Belgio, che possono così continuare a condizionare le economie delle loro terre d’oltremare attraverso il controllo militare dei territori. Anche gli Usa con il Comando Africa (Africom) vorrebbe fare lo stesso, ma ancora non sono riusciti a stabilirsi solidamente sul suolo africano. I secondi protagonisti di questa tragedia continentale sono le multinazionali minerarie, diamantifere e del legno, che possono concludere accordi con i gruppi di guerriglia per la fornitura di ciò che vogliono, al prezzo più conveniente. Non dimentichiamo che Lumumba, così come Kabila padre, furono uccisi proprio perché esigevano prezzi più equi sulle materie prime del loro Paese. E poi, ancora, ci sono i fornitori di armi leggere e meno.
Nella crisi maliana, ovviamente in modo propagandistico, viene evidenziata la supposta origine iraniana delle armi automatiche dei guerriglieri islamici, senza menzionare l’origine occidentale dell’arsenale di Gheddafi e dunque della gran parte delle armi usate in Mali. Ultimi «beneficiari» della situazione sono certamente gli enti internazionali che gestiscono i rifugiati interni ed esterni, e che spingono sui donatori per avere i fondi necessari. Ora se pensiamo che le Nazioni Unite sono in deficit permanente di sostegno, e che le promesse occidentali per realizzare gli Obiettivi di sviluppo del Millennio non sono state onorate, si capisce anche quanto una crisi importante, mediaticamente significativa, possa aiutare le esangui casse dell’Onu. Ma non finisce qui. In realtà il quadro generale è molto più ampio e ci ricorda che questa parte d’Africa è la più soggetta alle ferree leggi della biopolitica, cioè alla necessità, come diceva Foucault, del liberismo di governare le nude vite al fine di ricavarne la massina plusvalenza. In altre parole, se noi europei e nordamericani abbiamo un’impronta ecologica che ci costa il doppio della terra di cui disponiamo, dove trovare queste risorse se non nel continente africano? E quale modo migliore che la permanente instabilità di una zona del mondo estremamente ricca? Certo un po’ di cooperazione e specialmente di aiuto umanitario non si nega a nessuno, ma mai tanto da sostenere vere democrazie e i diritti umani, sennò da noi la crisi porterebbe i movimenti di guerriglia dalle sabbie del Sahara a Place de la Concorde.
Raffaele K Salinari