Siem Rap (Cambogia)
Cosa sia realmente successo in Cambogia, quanti siano stati i morti ammazzati dal regime dei khmer rossi, che ha governato il paese asiatico dal 1975 all’invasione vietnamita del 1978, non lo sa realmente nessuno. Un episodio tra i più oscuri della guerre fredda, sullo sfondo di un Sud est asiatico preda non solo della contesa tra Usa e Unione sovietica, ma visto oramai come “giardino di casa” dalla Cina di Mao e Zhou Enlai. Al tempo della presa del potere da parte dei khmer rossi il loro stratega indiscusso e Capo dello stato era Khieu Samphan detto “il fantasma”, perché per anni era stato dato per morto, ucciso dalla polizia segreta del principe Sihanouk, che lui criticava per le scelte stravaganti e la corruzione dilagante. Il principe, che faceva ammazzare a bastonate i ribelli al suo regime, proprio come pochi anni dopo avrebbero fatto i khmer rossi, lo accusò di aver fomentato una rivolta a Batambang, ordinandone l’esecuzione. In realtà Samphan, un raffinato intellettuale marxista laureato alla Sorbona, aveva già raggiunto lo sparuto gruppo di guerriglieri comunisti che, dal lontano 1954, cercavano di conquistare un territorio che si potesse definire “liberato”. Il Primo ministro del nuovo regime khmer era invece il “fratello numero Uno”, il meno appariscente e sconosciuto Pol Pot, forse il nuovo nome di battaglia di Saloth Sar, vecchio segretario del Partito comunista khmer, ed il suo Vice Ieng Sary. Per ben due anni a nessun giornalista occidentale fu possibile entrare nel paese; le uniche notizie erano quelle dei profughi che riuscivano a fuggire in Tailandia, e che raccontavano storie raccapriccianti di vere e proprie esecuzioni di massa, di migliaia di persone uccise nei modo più barbari e gettati nelle fosse comuni. All’epoca la propaganda occidentale si mischiava ai fatti vissuti e distinguere la menzogna dalla storia non era facile. Fatto sta che, a fronte della tragedia del popolo cambogiano, nessuna Commissione d’inchiesta internazionale sui presunti crimini del regime cercò di recarsi nel paese, nessuna mozione di condanna internazionale fu presentata al Consiglio di sicurezza, anzi; il Governo di Pol Pot, sostenuto ambiguamente dalla Cina, fu riconosciuto come legittimo rappresentante del popolo cambogiano e sedette nel seggio destinato alla Cambogia nel’assemblea dell’ONU. L’invasione vietnamita, in chiave anticinese, mise fine al regime dei khmer rossi, ma anche la Cina, dopo la visita di Pol-Pot a Pechino nel 1978 aveva cercato di convincere il “fratello numero Uno” ad ammorbidire il regime. Dopo la caduta del regime comunista la guerra civile ha insanguinato la Cambogia sino agli anni novanta, quando il Principe Sihanouk è tornato a governare la “sua” Phnon-Penh attraverso una monarchia parlamentare. Cosa resta di quel periodo? I cambogiani sono una popolazione giovane, chi è attivo oggi è nato dopo quel periodo e non ama ricordarlo se non come qualcosa che appartiene ad un altra storia. Ma, come un fantasma che a volte ritorna a rammentare al presente il suo passato, il ricordo degli anni di Pol Pot si materializza nelle situazioni più impensate e sotto le forme più diverse, arrivando a riaprire il vaso di Pandora della memoria sopita. Questa volta prende una forma animale, di un rettile potente ed arcano, la cui immagine simbolica parla di crudeltà; le sue lacrime sono l’espressione per antonomasia del falso rimorso: il coccodrillo. Mi fermo sulla via del ritorno dai templi di Angkor, abbacinanti di sole e di bellezza sotto il calore impietoso della stagione che precede il monsone, ad una fattoria di coccodrilli. Alcuni cartelli dicono che si possono dare loro da mangiare pesci e volatili vivi. Mentre osservo un gruppo di questi rettili particolarmente vecchi, un gruppo di turisti giapponesi decide di dare in pasto un’anatra viva. Mi allontano discretamente dalla folla nipponica che arma i telefonini come macchine da presa. Dopo poco sento l’inconfondibile scatto delle mandibole possenti triturare la povera preda, mentre già partono i video messaggi. Discosto un vecchio cambogiano osserva la scena ed annuisce tra se e se. Mi si avvicina e mi indica l’alligatore che ancora stringe nella bocca l’anatra appena morta. “Lo sapevo che se la sarebbe presa lui”, mi dice in un francese senza esitazioni, come a rispondere ad una domanda. “Quel coccodrillo è vecchio ma ha mangiato in gioventù una carne molto particolare, che lo ha reso più forte e crudele degli altri: carne umana”. Al mio sguardo interdetto continua la sua storia. “Io ero giovane all’epoca dei khmer rossi; ero un allevatore, ma fingevo di essere un semplice contadino che viveva qui. Noi prendevamo i coccodrilli dal lago e li tenevamo sino a quando non erano abbastanza grandi per ricavarne la pelle. Quel coccodrillo apparteneva alla mia famiglia. Un giorno sono arrivati i khmer rossi con un prigioniero, ci hanno chiesto dove erano i coccodrilli. Loro ne hanno radunati un certo numero e poi hanno gettato loro in pasto il prigioniero. Il mio coccodrillo è quello che lo ha ucciso. Oggi è molto vecchio ma si ricorda ancora di quella carne. Da allora è diventato particolarmente feroce ma io l’ho sempre accudito, in ricordo di quei giorni che non vorrei tornassero mai più. Quando a volte i giovani mi dicono che esagero, che tutto questo ce lo siamo inventato noi vecchi per fargli paura, che non è possibile che siano accadute cose di questo genere in Cambogia, io li porto qui e gli narro la storia del mio coccodrillo. Loro lo guardano mentre magia e capiscono che ho detto la verità”.
Raffaele K Salinari