La notte tra il venticinque ed il ventisei settembre 1940 moriva Walter Benjamin – forse per eccesso di sedativi, o forse uccidendosi consapevolmente – a Portbou, al confine tra la Francia e la Spagna; un epilogo da esule, in fuga dal nazismo e da tutte le concezioni totalitarie, che sigilla per sempre il tratto indecifrabile del suo destino. Nell’ultima lettera che, la notte del 25 settembre, scrive ad Adorno, dichiara: «In una situazione senza uscita, non ho altra scelta se non quella di farla finita».
La Gestapo aveva già requisito la sua casa di Parigi e sequestrato la sua biblioteca, quella che era riuscito a salvare fuggendo dalla Germania; come ricorda Hannah Arendt, «la metà più importante».
Lo stato d’animo di quei suoi ultimi giorni, come in una sorta di estrema confessione, forse preparatoria all’irreparabile, è ben descritto nella lettera che egli invia, con una prima stesura delle famose Tesi sul concetto di Storia, a Gretel Adorno. Qui traspare lo spirito di una visione che intreccia, inestricabilmente, l’interpretazione della storia personale, i ricordi dell’infanzia, le prime impressioni infantili, con quella della grande Storia. «Per quanto concerne la tua richiesta di appunti che possano risalire alla conversazione sotto gli alberi di marronniers, ebbene, si è presentata in un momento in cui proprio quegli appunti mi hanno dato da fare. La guerra, e la costellazione che l’ha portata con sé, mi ha condotto a mettere per iscritto alcuni pensieri che posso dire di aver tenuto per almeno vent’anni custoditi in me, anzi preservandoli pure da me stesso. Questo è anche il motivo per cui persino a voi non ho concesso altro che un fuggevole sguardo su di essi. La conversazione sotto i marronniers fu una breccia in questi vent’anni. Ancora oggi te li consegno più come un mazzetto di erbe sussurranti messe insieme in passeggiate meditative che come una raccolta di tesi».
In realtà egli temeva di non avere un’altra occasione per confessare agli amici i suoi sentimenti, né la possibilità di condividere con loro, come avrebbe voluto, la stesura definitiva di quei pensieri – la leggendaria borsa nera dalla quale non si separava mai, misteriosamente sparita, forse conteneva la versione “assoluta” del manoscritto al quale sempre lavorava – ma nella lettera respiriamo l’aria che aleggia intorno alla sua decisione di fuggire, di certo mettendo anche nel conto che poteva non riuscirci.
Le visioni che Benjamin invia a Gretel Adorno ruotano intorno ai due personaggi che egli cita in apertura della prima Tesi: il Turco, l’automa che giocava a scacchi, realmente costruito nel 1770 dal barone ungherese Von Kempelen per l’imperatrice d’Austria Maria Teresa, e l’«omino gobbo» che, secondo l’ipotesi del tempo, lo animava. E allora perché queste bizzarre figure si prestano tanto magistralmente al ruolo di passage per i pensieri segreti che, sino a quel momento, aveva coltivato per sé, e che solo in presenza di un rischio di morte si era risolto a svelare?
Forse l’automa giocatore di scacchi e dell’«omino gobbo» che lo manovrava, simboleggiavano per lui l’immagine folgorante, lo jetzt, che consente di illuminare il nesso tra vita e Storia: di «ricomporre l’infranto».
La centralità di queste due figure-guida è tale che egli le ripensava incessantemente anche durante i convulsi giorni della fuga; a Lisa Fittko, che faceva parte del gruppo dei fuggitivi, disse: «Qualunque cosa accada bisogna salvare il manoscritto, è più importante della mia vita». Per capire tutto questo si deve allora tornare alle sue visioni infantili, che egli ritrova nelle esperienze con l’hashish, e dove ad un certo punto dice: «La maleducazione è il dispiacere che il bambino prova per il fatto di non essere capace di magia. La sua prima esperienza del mondo non è che gli adulti sono più forti, ma la sua incapacità di praticare la magia». Il Turco, ed il suo «omino gobbo», erano dunque esseri favolosi che lo riportavano ai momenti estatici, aurorali, dell’entusiasmo infantile: al tempo del mistero e del segreto, quando «tutto era ancora possibile». Possiamo ben comprendere quale salvezza immaginale rappresentasse per Benjamin questa coppia, nei dolorosi giorni dell’esilio.
Ecco perché ad animare il Turco è il «nano gobbo»; qui non è tanto la deformità fisica ad essere importante, quanto la relazione sui generis che intercorre tra questo genio ed i ricordi del suo poetico periodo infantile, al quale egli sa di appartenere totalmente. «Non crediate il destino sia più che l’intensità dell’infanzia» dice Rilke, e nessuno più di Benjamin, che ha tessuto tutta la sua vita tra le polarità di una fede politica materialista e di una religiosità mistica, può capirlo.
L’«omino gobbo» infatti, è un personaggio continuamente ricorrente nella sua opera: in Infanzia berlinese si manifesta nell’oscurità dello scantinato, protetto dal buio in cui nascono e si proiettano le visioni infantili. È una sorta di suo Doppelganger: «Conserva le mie immagini, io non posso dividermi da lui», confessa all’amico Gershom Scholem, come ad evocare qualche cosa di risolutivo per tutto il suo essere.
«Questo ometto è l’inquilino della vita distorta; e svanirà quando verrà il Messia», dice in un saggio su Kafka. Walter Benjamin ha dunque bisogno di identificarsi col suo Doppio «omino gobbo» per capire il «tempo distorto» dell’esistenza, nell’attesa di quello liberato che segnerà l’avvento dell’apocatastasi rivoluzionaria.
Sembra qui di vedere il filosofo trasformarsi in uno dei personaggi che compaiono nei racconti di un autore per ragazzi a lui molto caro, quel Robert Walser i cui protagonisti si muovono, proprio come il suo Doppio «omino gobbo», nella notte «dove essa è più nera, una notte veneziana, se si vuole, illuminata dai deboli lampioni della speranza, con qualche luce di gioia negli occhi». Forse, steso sul letto di morte, piegato, ingobbito lui stesso dalla disperazione che oramai lo schiacciava, ingoiando più o meno consapevolmente la dose letale, l’ultima sua preghiera è stata la medesima che aveva recitato tante volte in quell’ormai lontana infanzia berlinese: «Prega bambino mio, per l’omino con la gobba prega Iddio».