CULTURA
La vera storia di “Koba” campanaro a Venezia
di Checchino Antonini
Al posto di blocco al confine con l’Azerbaigian, il commissario politico è sconcertato. E sconcertato è dire poco. Suda freddo. Quel marinaio gli ha chiesto di fare uno squillo niente meno che al Commissario alle nazionalità. Ricapitolando: è una fredda giornata del 1921, da un capo del filo c’è Corto Maltese, figlio di una gitana e di un marinaio scozzese, avventuriero, di passaggio verso Samarcanda dove il suo amico Rasputin è rinchiuso in prigione, nella “Casa Dorata”. Insieme sarebbero andati alla ricerca del mitico tesoro di Alessandro il Grande. All’altra cornetta, a Mosca, c’è Iosif Vissarionovich Dzugasvili, in arte Stalin. Ma Corto lo ha conosciuto molto prima quando si faceva chiamare Koba. La conversazione, brevissima, fa cenno a un incontro di tanto tempo prima. Era il 1907. Il futuro sanguinario leader del Cremlino era di passaggio in Italia per motivi inconfessabili a Mosca.
L’ormai introvabile “Corto Maltese memorie” (di Hugo Pratt, settembre 1989, Rizzoli-Milano libri) restituisce una versione per cui Koba era sbarcato sotto falso nome ad Ancona ma diretto a Londra dov’era in programma il congresso del partito socialdemocratico. Ad Ancona avrebbe fatto il portiere di notte presso l’albergo Roma e Pace (curioso il depliant riprodotto nel volume: “riscaldamento a termo-sifone senza aumento di prezzo, ottimo restaurant a tutte le ore, omnibus a tutte le ore”). Poi avrebbe traslocato per Venezia dove restò qualche tempo ospite del convento di S.Lazzaro degli Armeni. Ma suonava le campane troppo forte, all’uso orientale e non andava a genio all’abate mechitarista. Così dovette partire per Milano dunque per Londra via Parigi. In realtà non fece mai il portiere di notte ad Ancona. Ma in quell’albergo ci mise piede. C’è un vecchio ritaglio del “Candido” (giornale di destra diretto da Giovannino Guareschi, quello di don Camillo e Peppone) incorniciato a testimoniarlo. E nemmeno era diretto a Londra. Koba doveva organizzare una rapina a Tiflis per l’autofinanziamento dell’ala bolscevica del partito socialdemocratico. Una pratica messa al bando: se fosse stato scoperto avrebbe rischiato l’espulsione e sarebbero entrati in rotta di collisione i rapporti interni al partito. La vera storia l’ha scritta Raffaele K. Salinari rimasto colpito dal colloquio immmaginario disegnato da Hugo Pratt nella “Casa dorata di Samarcanda”. La sua ricerca è diventata un “millelire”, un libricino – “Stalin in Italia ovvero Bepi del giasso” – appena pubblicato da una piccola casa editrice bolognese dal nome affascinante “Ogni uomo è tutti gli uomini” (36 pagg, 3.50 euro).
Salinari è un medico specializzato in chirurgia di urgenza ed ostetricia. Ha lavorato per una ventina di anni in Africa, Asia ed America Latina come medico responsabile di diversi programmi di sviluppo socio-sanitari. Ha ricoperto incarichi di dirigente di Ong italiane e di consulente delle Nazioni Unite sui problemi sanitari. Ora è presidente di Terre des Hommes International. Membro del Consiglio Internazionale del Forum Sociale Mondiale, dal 2001 insegna presso le Università di Urbino, Parma, Bologna, Ravenna, Tarragona (Spagna). Suona e canta in un gruppo rock – qualche anno fa ha stupito tutti esibendosi in piazza Alimonda – ma qui ci interessa come scrittore e pubblicista, ha curato diversi saggi sui processi di globalizzazione, collabora con diverse riviste.
Per evitare ogni equivoco (un gigante del giornalismo come Luca Telese potrebbe scriverci un pamphlet in una notte), l’autore ha una formazione libertaria e nessuna nostalgia staliniana e il recensore, addirittura, è un trockista. Semplicemente Salinari s’è avventurato sulle tracce di una storia di cui ha intuito le pezze d’appoggio reali. Nostalgia, semmai, è quella per Hugo Pratt scomparso ormai il 20 agosto di quindici anni fa. Aveva solo 68 anni. Le sue invenzioni, come ha raccontato il suo consulente Augusto Bruni sulle pagine di un vecchio “Liberazione della domenica”, avevano delle solide basi storiche e bibliografiche. Stavolta però Salinari ha scovato alcuni tasselli mancanti. E solo a libro chiuso è arrivata una rivelazione inedita da ambienti vicini al convento armeno: «Quei soldi li riciclammo noi».
Tratto da: Liberazione.it