Si apre il 20 settembre presso la sede delle Nazioni Unite a New York la tre giorni di verifica decennale dei passi compiuti in vista dell’attuazione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDGs in inglese). Nell’ormai lontano duemila, l’unanimità delle nazioni, riunite all’interno dell’Assemblea Generale dell’ONU, avevano approvato otto obiettivi di sviluppo che vanno dalla riduzione delle persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, circa un miliardo, al contenimento delle pandemie di Aids tubercolosi e malaria, alla diminuzione della mortalità materno infantile, sino al sostegno dell’educazione di base, l’accesso ai farmaci essenziali, ad un maggior equilibrio tra umanità ed ambiente, ed all’empowerment delle donne, specie per le nazioni impoverite, vedi www.un.org/millenniumgoals. L’iniziativa, ispirata da un millenarismo in positivo, aveva ambizioni alte: non solo sconfiggere la povertà nel mondo, ma assicurare la fruizione dei Diritti economici sociali e culturali a quanti ne erano esclusi. Una prospettiva nata dalla caduta del muro di Belino e dalla fine della Guerra Fredda insomma: gli Obiettivi del Millennio come naturale e plausibile risultato della “fine della storia”. Ovviamente il piano di lavoro era spalmato su quindici anni, 2000-2015, e richiedeva da parte della nazioni ricche un impegno fissato allo 0,7% del loro PIL. Per un paio di anni, sino al fatidico 11-9-2001, le cose sembrarono marciare, anche perché, in concreto, ancora non si erano presi impegni economici precisi, anche se l’Occidente era impegnato a cancellare definitivamente l’idea che esistesse un altro modello di sviluppo, oltre al suo. Gli attentati alle Torri Gemelle hanno scoperchiato il vaso di Pandora delle tensioni internazionali, e proiettato la politica estera USA, e dei suoi alleati, su un crinale bellico che derubricava drasticamente l’importanza della cooperazione internazionale allo sviluppo, e la sostituiva “at the top of the agenda” con la “guerra permanente globale contro il terrorismo”, questo complesso ed articolato dispositivo neogiuridico costituente di un nuovo ordine mondiale basato sul warfare e non certo sul welfare. La guerra ha progressivamente eroso spazi politici ed economici alla centralità degli MDGs per tutto il periodo Bush-Blair, poi la recente crisi economico-finanziaria ha fatto il resto, nel senso che i fondi a disposizione per gli MDGs non hanno mai superato lo 0,3% del PIL dei paesi donatori, con punte di vergogna internazionale come quelle del nostro Paese, attualmente allo 0,1%. Sin dalla prima valutazione, cinque anni or sono, la denuncia delle organizzazioni non governative internazionali impegnate nel sostegno degli MDGs era chiara: siamo a meno della metà dei fondi promessi e di questo passo gli Obiettivi non saranno raggiunti. Oggi, a dieci anni di distanza ed a cinque dalla fine dell’ambizioso progetto, dobbiamo dire che siamo messi ancora peggio, se possibile, dell’inizio del secolo. I problemi sono sia quantitativi che qualitativi. In prima battuta, come detto, nessun paese ricco è andato oltre un misero 0,3% del suo PIL, con eccezioni positive certo, come i paesi del nord Europa, ma complessivamente siamo a meno della metà dei fondi previsti e non ci sono evidenze concrete che questo trend cambierà in positivo. Il secondo ordine di problemi è legato alla crisi economica che, ovviamente, pesa in maniera terribile sui paesi poveri. Se i ricchi devono dimagrire, in termini di impiego, reddito, consumi e quant’altro, i poveri semplicemente muoiono: basta pensare all’innalzamento del prezzo dei cereali ed al fatto che solo in occasione di questa ultima crisi alimentare sono aumentati di trecento milioni le persone a rischio di morte per fame. Certo, progressi sono stati fatti, in certe aree del mondo la mortalità infantile è diminuita, ma non certo perché la cooperazione internazionale allo sviluppo si è mostrata efficace; semplicemente sono aree che hanno preso in mano il loro destino in termini di redistribuzione del reddito e delle opportunità, e non certo perché favorite dai flussi finanziari dai paesi ricchi; parliamo di alcune nazioni dell’America latina e dell’Asia dove gli squilibri restano drammatici ma si intravede la volontà politica di invertire le dinamiche di sperequazione. La proposta di Dichiarazione Finale di questo Summit, in larga parte già condivisa, va dunque analizzata alla luce di queste evidenze internazionali, ma anche rispetto ai cambiamenti dell’ultimo anno, dovuti anche in parte alla presidenza Obama ed al nuovo multilateralismo, sebbene sempre a guida americana, che fa sentire la sua impronta nel linguaggio utilizzato. La prima cosa che si evidenzia è la centralità che viene attribuita alle Nazioni Unite nella leadership e nel coordinamento degli MDGs. Non è una cosa scontata, se pensiamo alle dichiarazioni di Bolton, ambasciatore USA preso il Palazzo di Vetro per conto di Bush, quando diceva che bisognava “ridurre” l’ONU di una decina di piani. Un altro accenno importante è quello sul rispetto delle differenze culturali, che vengono evidenziate come ricchezza e non come un ostacolo per gli Obiettivi di Sviluppo. In un momento di grandi tensioni internazionali non è poco, anche qui ricordiamo lo “scontro tra civiltà” che andava di moda solo un lustro fa. Centrale, nella proposta di Dichiarazione Finale, anche la presa d’atto del ruolo negativo dei cambiamenti climatici e della riduzione delle biodiversità e, di converso, la sottolineatura del ruolo centrale delle donne nei processi di sviluppo. E dunque, tutto bene? Ovviamente rimangono gli ostacoli di fondo, dato che il quadro di riferimento generale, esplicito e riaffermato all’unanimità, almeno così sembra, dei Paese membri, è quello dell’economia di mercato “regolata” dagli accordi del WTO, dai prestiti della Banca Mondiale e del FMI, soggetti ritenuti centrali nell’armonizzazione del sistema degli scambi commerciali, ed ai quali viene riconosciuto nella Dichiarazione un ruolo positivo nel recente passato e fondamentale per i prossimi anni. Il contraltare di questa centralità inquietante è costituito dall’auspicio che “i paesi in via di sviluppo abbiano più perso nelle loro decisioni”, anche se non si dice come. Ai paesi poveri, oltre agli aiuti ripromessi e ribaditi, ma questo era scontato, si propone inoltre di essere “più flessibili”secondo i criteri WTO, mentre i paesi ricchi promettono di investire più capitali nel Sud del mondo e diminuire il loro dumping sulle produzioni alimentari: ciò si dice da almeno dieci anni in sede WTO senza arrivare a concrete realizzazioni. Di fronte al disastro sanitario provocato dall’Aids, si contempla la possibilità di fare eccezioni mirate al regime dei TRIPS ma solo per quello che concerne i farmaci salvavita. Viene inoltre ribadita l’importanza dei Diritti umani e la loro universale salvaguardia. In conclusione, una buona quantità di retorica onusiana, sempre importante per chi la prende seriamente, accompagnata da grandi quantità di liberismo, che deve contribuire a far girare a pieno ritmo la macchina dell’economia mondiale, sotto stress per la recente crisi “grave quanto quella del ’39”, per ricominciare a produrre ricchezza e ridistribuirla dai più ricchi ai più poveri, secondo uno schema “tricle down” cioè di sgocciolamento, ben conosciuto e che non ha mai funzionato, tranne che nei paesi ricchi nei momenti rampanti del capitalismo fordista. Infine, costantemente evocata dalla Dichiarazione come supporto irrinunciabile, anche se non sostitutivo, ai fondi dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo, la partnership pubblico-privato, vera ed unica innovazione sostanziale nelle politiche di aiuto, che vedono una progressiva “privatizzazione” di questa parte delle politiche estere dei paesi ricchi, affidate all’interesse dei privati e naturalmente alla loro necessità di apparire filantropici per esigenze pubblicitarie. Il fronte, variegato ma coerente, delle ONG internazionali presente qui a New York allora, ribadirà che gli impegni internazionali verso la povertà sono altrettanto importanti di quelli commerciali, e non vanno subordinati agli affari, che le promesse vanno mantenute perché significano dare un futuro a tutti e disinnescare tutti insieme le tensioni globali che sono legate ai disastri ambientali, alle guerre causate dall’accumulo di ricchezze, alla fame causata dalle coltivazioni intensive solo per esportazione ed a tutte quelle malattie che non si possono curare per mancanza di fondi ma anche perché i brevetti delle multinazionali mantengono alti i prezzi di troppi farmaci. Richiameremo i governanti dei Paesi ricchi al fatto che spendono troppo per proteggersi da se stessi e troppo poco per creare le condizioni per un mondo di pace, che esiste un solo clima e che tutti ma che lo devono proteggere di più quelli che più lo hanno manomesso, che lo scenario futuro è legato ad un modello di sviluppo basato sui Diritti umani e che la finanza internazionale deve pagare il suo tributo al benessere di tutti attraverso una tassa sulle transazioni internazionali. La battaglia per un altro mondo possibile continua. Raffaele K Salinari, Presidente Terre Des Hommes