La medusa! Il grido che risuona di anno in anno tra i bagnanti, ha accompagnato anche la stagione estiva appena trascorsa. Essere affascinante e pericoloso, in una parola, sublime, come giustamente E. Burke lo definiva nel suo A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful, la medusa acquatica, al pari della sua ascendente mitologica, la Gorgone Medusa, sembra esprimere nel suo piccolo l’essenza stessa di «tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò
che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore»; il sublime, sempre secondo Burke, può anche essere definito come «l’orrendo che affascina» (delightful horror).
La medusa acquatica, dunque, è paradossalmente una delle fonti del sublime perché «produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire», uno stato non prodotto dalla contemplazione della distanza, come avviene di fronte a certi fenomeni naturali ma, al contrario, da quella intima vicinanza che si crea quando due corpi si toccano.
Anche M. Praz, nel celebre La carne, la morte e il diavolo, apre il libro sulla mitologica Bellezza Medusea riferendo che nessun quadro fece impressione più profonda sull’animo di Shelley della Medusa, un tempo attribuita a Leonardo, e ora a un ignoto fiammingo, che egli vide agli Uffizi verso la fine del 1819. La poesia che ne scrisse merita di esser riferita qui per intero, poiché è come un manifesto del concetto di bellezza che gli fu proprio: «Giace, fissando il cielo notturno, supina sull’annuvolata vetta d’un monte; sotto, è un tremolare di distanti terre. Il suo orrore e la sua bellezza sono divini. Sulle sue labbra e sulle palpebre posa la venustà come un’ombra: ne irradiano, ardenti e fosche, le agonie dell’angoscia e della morte che sotto si dibattono. Pure non tanto è l’orrore quanto la grazia a impietrire lo spirito del riguardante, su cui si scolpiscono i lineamenti di quella morta faccia, finché i caratteri ne penetrano in lui, e il pensier si smarrisce; è la melodiosa tinta della bellezza, sovrapposta alla tenebra e al baglior della pena, che rendono umana e armoniosa l’impressione. E dal suo capo, come se fosse da un sol corpo, sorgono, pari all’erba da un’umida roccia, capelli che son vipere, e si attorcono e si distendono, e intrecciano i nodi tra loro e in infiniti avvolgimenti mostrano il loro splendore metallico, quasi a irridere la tortura e la morte interiori, e tagliano l’aria compatta colle loro scheggiate mandibole. E da una pietra accanto, un velenoso ramarro s’indugia a spiare entro quegli occhi gorgonei, mentre nell’aria, attonito, un pipistrello è svolazzato fuor della tana dove questa spaventosa luce l’ha sorpreso, e si precipita
come una tarma a una candela, e il cielo notturno balena d’una luce più spaventosa dell’oscurità. È la tempestosa leggiadria del terrore: dalle serpi lampeggia un cupreo bagliore acceso e fa intorno come un vibrante alone, mobile specchio di tutta la beltà e di tutto il terrore di quel capo: un volto di donna con viperei crini, che nella morte contempla il cielo da quelle umide rocce».
Il dolore e il piacere si combinano qui in un’impressione unica; dai motivi stessi che dovrebbero ingenerare ribrezzo – il volto livido del capo tronco, il groviglio di vipere, il rigore della morte, la sinistra luce, gli animali repellenti, il ramarro e il pipistrello – sgorga un nuovo senso di bellezza insidiata e contaminata, un brivido nuovo. Non è forse ciò che nel nostro intimo al contempo ci attrae ci respinge anche nei confronti delle nostre meduse acquatiche?
Nomen omen
E allora, già l’origine mitologica che la cultura mediterranea ha voluto attribuire al nome di questo essere marino, (al contrario invece del prosaico e svilente termine inglese), rende ragione sia della sua natura biologica, sia della reazione che genera il suo tocco: il pietrificante tocco della Medusa.
Nella mitologia greca, infatti, Medusa è una delle tre Gorgoni, figlie di Forco, antica divinità marina, capace con il suo sguardo di pietrificare chiunque la fissasse negli occhi. Teseo, con l’aiuto di Ermes ed Athena, le taglia la testa, che anche mozzata manteneva il suo potere pietrificante, usandola prima contro i suoi nemici e poi donandola a Minerva che la metterà sulla sua egida.
Interessanti, per le relazioni tra la Medusa e le nostre piccole, ma altrettanto pietrificanti, compagne di bagno, gli strumenti che Perseo usa per l’impresa: un elmo dell’invisibilità, un paio di calzari alati, ed una borsa in cui mettere la testa decapitata. Ora, benché donati all’eroe da parte delle due divinità tutelari, in realtà questi sono oggetti che le Naiadi, cioè le Ninfe marine, custodivano originariamente. Qui appare chiaro un primo insegnamento del mito: solo ciò che viene dalla Natura può governare un altro aspetto di essa. Le Naiadi, infatti, sono la quintessenza dell’acqua, l’elemento di cui è fatta Medusa, e danno a Perseo le istruzioni per sconfiggerla. L’elmo dell’invisibilità suggerisce la capacità di avvicinarsi discretamente, i calzari alati la velocità nella fuga, il sacco un modo di custodire la testa ancora attiva senza subirne il potere.
Ora, chiunque si sia avventurato nella pratica di cogliere una medusa nel suo ambiente naturale e trarla fuori da esso senza subirne le conseguenze, ha di fatto utilizzato questi tre suggerimenti. Ci si avvicina alla medusa lentamente per non far vibrare l’acqua e dunque metterne in allarme i tentacoli che, al contrario, cominciano ad agitasi in tutte le direzioni in caso di sentore di una preda o un pericolo, come di fatto avviene nell’incontro fortuito mentre si nuota; il sacco rappre
senta invece la posizione che la mano deve assumere per trarla fuori dall’acqua: a coppa, come un sacchetto appunto, deve essere messa sulla testa per evitare i tentacoli e poi, veloci come i calzari di Hermes, portarla così sulla sabbia dove in pochi istanti il sole denaturerà le proteine del suo veleno urticante. Certo in alternativa alla mano a coppa di sacchetto basta un semplice retino, ma l’avventura si fa molto meno interessante.
Ovviamente la relazione tra la Medusa mitica e le nostre, rimanda principalmente, come abbiamo già accennato, al loro reale potere di pietrificarci, cioè di dare quella scossa che paralizza, seppur per un solo momento, immobilizzandoci in una breve ma intensa tetania che si trasforma ben presto in quella peculiare e spiacevole sensazione urente. Qui l’analogia tra la chioma anguicrinita dell’essere mitologico e i tentacoli medusini è più che evidente.
Ma i rimandi mitologici che legano la Medusa Gorgona alle nostre compagne di nuoto, non si fermano certo qui. Medusa ha anche a che fare con due formazioni marine estremamente affascinanti: il corallo rosso, e la gorgonia. In particolare il corallo rosso, nelle scienze esoteriche come l’alchimia, simboleggia la rigenerazione e la trasmutazione della materia che si ottiene attraverso il processo di «fissazione» dello Spirito, in questo caso rappresentato dal fluente principio acqueo, pratica che Ovidio ben descrive nel brano delle Metamorfosi (IV, 740-752) dove parla appunto di Perseo e della testa di Medusa: «L’eroe intanto attinge acqua e si lava le mani vittoriose; poi, perché la rena ruvida non danneggi il capo irto di serpi della figlia di Forco, l’ammorbidisce con le foglie, la copre di ramoscelli acquatici e vi depone la faccia di Medusa. I ramoscelli freschi ancora vivi ne assorbono nel midollo la forza e a contatto con il mostro s’induriscono, assumendo nei bracci e nelle foglie una rigidità mai vista. Le ninfe del mare riprovano con molti altri ramoscelli e si divertono a vedere il prodigio che si ripete; così li fanno moltiplicare gettandone i semi nel mare. Ancor oggi i coralli conservano immutata la proprietà d’indurirsi a contatto dell’aria, per cui ciò che nell’acqua era vimine, spuntandone fuori si pietrifica».
Eppure l’aspetto più stupefacente che lega la Medusa del mito
a quelle biologiche è quello della longevità. Se, infatti, la Medusa decapitata da Perseo, tra le tre originarie, era la sola che poteva morire, costei era anche potenzialmente eterna, come tutti i semidei. Ed ecco che, con una intuizione veramente inarrivabile, la mitologia anticipa una verità che la scienza contemporanea, quella che separa e classifica, pesa e codifica, normalizza e riduce, sempre più spesso perdendo di vista la «trama nascosta» eraclitea che lega ogni cosa, ha solo recentemente scoperto: esistono meduse biologiche potenzialmente immortali, capaci di rigenerarsi continuamente e che potrebbero esistere in vita da milioni di anni. Stiamo parlando in specifico della Turritopsis nutricula, comunemente nota appunto come medusa immortale, un idrozoo della famigliaOceaniidae in grado di tornare completamente ad una fase embrionale, dopo aver raggiunto la maturità.
Questo significa che se la maggior parte delle specie di meduse ha una durata di vita relativamente fissa, che varia da alcune ore a molti mesi, la «medusa immortale» possiede la capacità di invertire il ciclo vitale, ed è quindi, probabilmente, l’unica entità del regno animale che può aggirare o perlomeno ritardare la morte sine die.
La Medusa di Walter Benjamin
Chi ha voluto e saputo restituire al mito in generale, ed a quello di Medusa in particolare, la sua «debole forza messianica» nella incipiente modernità, è stato certamente W. Benjamin. Nessuna introduzione alla sua filosofia, anzi al suo sguardo sul mondo moderno, sintetizza meglio questa particolarità di quella che il suo amico e sodale T. W. Adorno gli dedica: «Lo sguardo della sua filosofia è uno sguardo di Medusa. Se in essa, specie nella sua prima fase, dichiaratamente teologica, il concetto di mito detiene il posto centrale come contraltare della conciliazione, tutto, e in particolare l’effimero, diventa a sua volta, per il suo pensiero, mitico. La critica del dominio della natura, che l’ultimo aforisma di Einbahnstrasse programmaticamente annuncia, rimuove il dualismo ontologico di mito e conciliazione: questa è quella dello stesso mito. Nel progresso di tale critica il concetto di mito viene secolarizzato. La sua teoria del destino come nesso colpevole del vivente trapassa in quella del nesso colpevole della società: finché c’è ancora un mendicante, c’è ancora mito».
Per chiarire queste affermazioni di Adorno è bene tornare un momento sull’ultima affermazione del libro di aforismi Einbahnstrasse, cioè Strada a senso unico, scritto nel 1928. Qui troviamo un breve saggio intitolato La tecnica dello scrittore in tredici tesi. La tredicesima tesi, quella citata da Adorno, suona così: «Das Werk ist die Totenmaske der Konzeption», cioè «l’opera è la maschera mortuaria della concezione». Questo aforisma racchiude una intera concezione del pensiero mitico, la cui origine, non a caso, risiede proprio nella radice indoeuropea my, che esprime l’atto del silenzio iniziatico nel quale si possono comprendere le r
agioni dell’Essere.
Benjamin non era un iniziato in senso proprio, non apparteneva cioè, almeno che si sappia, ad alcuna Comunione esoterica, ma chi lo fosse apprezzerebbe certamente il fatto che il suo filosofare sostiene ed illumina la preminenza del pensiero intuitivo su quello razionale, almeno nella conoscenza delle Cose Ultime, di Quelle Cose, come dice l’inno omerico a Demetra. L’annotazione in particolare mostra che cosa si perde fissando in uno scritto quello che si è intuito: la rigidità di quanto è immutabile ha preso il posto del libero svilupparsi del pensiero. Vi è qui un’ultima eco della svalutazione platonica della parola scritta e, al tempo stesso, una speranza per cui la Verità, tanto cercata da Benjamin nelle cose di ogni giorno, può ancora essere trovata in quei Passaggi parigini che per lui erano il portale dove «un’epoca sogna la successiva».
Ed è appunto nella degenerazione consumistica di questi Passaggi che torna lo sguardo della Medusa in chiave di critica della modernità: le grandi vetrine dei negozi sono i suoi occhi pietrificanti, che ci costringono a fissare la merce rallentando il passo sino all’immobilità del corpo, che diviene così anche quella dell’anima. Il soggetto, in questo nuovo mito di pietrificazione, è dunque il vivente stesso, incanalato nei centri commerciali come un vero e proprio traffico di esseri umani reificati, che orientano la loro instancabile peregrinazione attraverso la bussola invisibile, ma non meno potente, che traccia le rotte già stabilite dalla pubblicità, da un oggetto all’altro.
Chissà cosa avrebbe detto il pensatore berlinese del contrasto stridente, ontologico, tra il flusso dei corpi migranti, spinti verso una vita migliore a costo della morte, ed i flussi di persone nei centri commerc
iali, spinti verso la morte dell’anima nell’illusione di vivere.
Eppure, con quello spirito messianico che lo accompagnò sino all’ultimo istante in fuga dal nazismo, come dice ancora Adorno, il pensiero di Benjamin faceva sue le promesse dei libri di favole per l’infanzia, anziché respingerle con la maturità ignominiosa dell’adulto, per cui chi entrava in consonanza con lui «si sentiva come un bambino che scorga attraverso le fessure della porta chiusa la luce dell’albero di natale». Ma la luce, in quanto luce della ragione, prometteva al contempo la verità stessa, non il suo impotente riflesso. Eccolo allora, ancora una volta, regalarci un’immagine della Medusa tratta dalla sua infanzia berlinese: «È stato l’anello più affascinante che abbia mai visto. Tagliato in un granato scuro e solido, raffigurava la testa di Medusa. […] Indossato al dito, l’anello sembrava semplicemente il più perfetto degli anelli con sigillo. Sei entrato nel suo segreto solo togliendolo e contemplando la testa in controluce. Poiché i diversi strati del granato erano diversamente traslucidi […] i corpi cupi dei serpenti sembravano elevarsi sopra i due occhi profondi e luminosi, che guardavano fuori da un viso che, nelle parti viola-nere delle guance, si ritirò ancora una volta nella notte».