Il ragazzo col ciuffo da Alias 5-9-2020
«Mi han detto che ti piacciono i ragazzi col ciuffo, mi han detto che ti piacciono i tipi come me, ed io mi sono fatto crescere i capelli, per farmi guardare da te, ye, ye, ye, ye, ye, ye, ye, ye». Così cantava Little Tony nei lontani anni ‘60 del secolo scorso, segno che anche in contemporanea all’emergente stagione Beat, quella dei capelli lunghi e fluenti sia per i ragazzi che per le ragazze, il fascino del «ragazzo col ciuffo», manteneva la sua centralità estetica, il suo fascino disfunzionale. Dopo quel periodo di splendore, però, il ciuffo sembrava eclissato da altre fogge, anche se ha sempre mantenuto una sua carsica presenza pronta a riemergere ciclicamente, tanto che oggi molti adolescenti ne sono dotati come particolare di una acconciatura che sempre si accompagna al gesto di aggiustarlo. E allora, che origini potrebbe rivelare questa particolare modalità di portare i capelli, e quale significato potrebbe avere il gesto di rassettarli toccandosi così la fronte, sede naturale del ciuffo?
Kairos
Se indaghiamo le ascendenze mitologiche del ciuffo, cioè le sue origini archetipiche, quelle che precedono la moda poiché la creano nel suo significato cosmetico-cosmologico, cioè di creazione dell’Ordine dal Caos, arriviamo immancabilmente alla figura di Kairos. Nelle raffigurazioni allegoriche dell’antica Grecia Kairos, il tempo dell’opportunità, dell’occasione, del soggettivo, è contrapposto a Kronos, quello lineare ed oggettivo della quantità, degli orologi. Il dio ha appunto un ciuffo di capelli sulla fronte, per poterlo «acciuffare», ma la nuca è calva poiché, una volta passato, non torna. C’è ancora uno splendido bassorilievo, risalente al III secolo a.C.: il dio vi è raffigurato come un giovane nudo, che corre rapido sui talari; ora si trova al Museo Municipale della città croata di Traù, l’antica Tragurium romana.
L’artista greco Lisippo aveva scolpito una statua di Kairos che teneva presso il cortile della sua casa, nella città ellenica di Sikyon. Sul piedistallo dell’opera era inciso un epigramma di Posidippo: «E chi sei tu? Il Tempo che controlla tutte le cose. Perché ti mantieni sulla punta dei piedi? Io non corro mai. E perché hai un paio di ali sui tuoi piedi? Io volo con il vento. E perché hai un rasoio nella mano destra? Come segno per gli uomini che sono più tagliente di qualsiasi lama. E perché hai dei capelli davanti al viso? Per colui che mi incontra per prendermi per il ciuffo. E perché, in nome del cielo, hai la parte posteriore della testa calva? Perché nessuno che una volta ha corso sui miei piedi alati lo faccia ora, benché si auguri che accada, mi afferri da dietro. Perché l’artista ti ha foggiato? Per amor tuo, sconosciuto, e mi mise su nel portico come insegnamento».
Già qui notiamo le convergenze tra la giovinezza, il ciuffo, e la figura di Kairos. In questo periodo della vita, quando ancora tutto è possibile, quando i dispositivi della normalizzazione non hanno sedimentato quel disincanto cui diamo il nome di maturità, tutto è Kairos: a noi tutti è sembrato di volare come lui sui talari, magari verso il primo amore, mentre il ciuffo ci indicava la strada dell’opportunità, dell’avventura. Ed anche se il ciuffo non era sulla nostra fronte come tale, bastava un soffio di vento a crearlo anche giusto per un momento, come noi stavamo facendo con la nostra vita. «Il vento vuole sempre giocare con i tuoi capelli» diceva Gibran, e cosa più del ciuffo cairologico, istantaneo, generato dallo zefiro improvviso, simboleggia la libertà dello spirito? Vento nei capelli, vento nei pensieri… Ecco perché, se ci pensiamo bene, alla vista di un «ragazzo col ciuffo», torna per un momento in noi la consapevolezza che subiamo un’epoca di coscienza infelice, nella quale avvertiamo confusamente la necessità di orientare la molteplicità dispersa dei nostri pensieri proprio in una prospettiva cairologica: rinascere «nell’assentimento alla legge d’armonia che collega e unisce ogni cosa nell’Universo», come dice l’egizio Plotino; lasciare la plumbea dittatura di Kronos, il dio che divora i suoi stessi figli, per praticare la leggerezza alata, ma non per questo meno impegnativa, anzi, di Kairos. Questa «metamorfosi degli dèi», come diceva Jung, ossia dei principi e dei simboli fondamentali che governano la nostra esistenza, nasce anche dall’evidenza che siamo pericolosamente al limite degli equilibri vitali complessivi, come la pandemia di Covid-19 ha ampiamente dimostrato.
Dai Bravi dei Promessi sposi ai Teddy Boys
La parola ciuffo deriva forse dal longobardo zupfa, simile al tedesco Zopf, che significa appunto ciuffo o treccia. Il dizionario Treccani così ci dice, aggiungendo, a mo’ di esempio: «ciocca di capelli che scende sulla fronte o sta ritta sul capo: i bravi di mestiere … usavan portare un lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una visiera». Ecco che qui traspare un’altra caratteristica, per così dire essenziale e del tutto complementare alla prima, del ciuffo: il suo lato «ribelle». Ciuffo e ribelle, infatti, sono due parole che vanno, non a caso, sovente insieme. E questo ci dice che la foggia dei capelli messi in quel modo vuole spesso simboleggiare proprio questa caratteristica. La ciocca sulla fronte o che, come nel caso dei Bravi di Don Rodrigo, può essere usata addirittura come maschera, emana sempre un ché di incoercibile, che non può essere costretto, fissato, composto: un qualcosa di ribelle appunto, un particolare che illumina tutta una maniera di essere.
E qui entriamo nel grande campo dei rebel without a cause, di quella «gioventù bruciata» immortalata nell’omonimo film del 1955 diretto da Nicholas Ray con un mitico James Dean che sfoggia il celebre ciuffo. Dall’altra parte dell’Atlantico, non a caso, si vivono le stesse dinamiche esistenziali. Sono gli anni in cui il nostro Tony, a Londra per cominciare la sua carriera di rocker, si fa crescere il ciuffo. Lungo il Tamigi incontriamo infatti i Teddy Boys, una delle bande di giovani proletari che, insieme ai Blouson Noir francesi, rappresentavano le prime manifestazioni di contestazione generica, anarcoide, senza una causa appunto, del «sistema». Tanto per misurare la distanza ideale, se non ideologica, tra quel periodo ed il ’68, basti citare un altro film, completamente diverso, ma altrettanto iconico, Barbarella, di Roger Vadim con l’attivista Jane Fonda, in cui il capo dei rivoluzionari contro il tiranno di turno, riassume all’avvenente agente segreta terrestre il credo del suo movimento: «chi non ha causa non ha effetto».
Ebbene, in quegli anni, invece, a maggior ragione il ciuffo esprimeva, insieme agli altri particolari dell’abbigliamento, una rabbia spesso inconsulta, ancora non politicizzata, spesso rivolta contro se stessa, come dimostra il fatto che i Teddy Boys si riunivano in bande che sovente si scontravano ferocemente fra loro. Fra gli scontri più violenti si ricordano i fatti di Notting Hill del 1958. Negli anni successivi il ciuffo diventa caratteristica stilistica dei Rocker, altra tendenza giovanile degli anni ’60 che si contrapponevano ai Mods. Non è questa la sede per analizzare in dettaglio la storia delle differenze, e dunque delle immancabili analogie, tra i due blocchi contrapposti, che sfociarono nella leggendaria battaglia nel 1964 a Clacton. Sempre per rimanere nell’ambito delle citazioni filmiche basterebbe andarsi a rivedere Quadrophenia, la pellicola del 1979 tratta dall’omonima opera rock degli Who. Naturalmente corre l’obbligo di citare la presenza del ciuffo sulla fronte di cantanti iconici di questo periodo, da Little Richard ad Elvis Presley, ben ondeggianti sulla fronte a tempo di rock a significare il tono ribelle ed irriverente della loro musica, inclusi i tanti epigoni rockabilly.
Infine, per chi volesse immergersi nell’ossimoro, ricordiamo Ricky Shayne, che nel 1965 incise il pezzo Uno dei Mods avendo in tutto e per tutto l’aspetto, ciuffo ipertrofico incluso… di un Rocker. Anche nei fumetti di quegli anni il ciuffo connotava personaggi ribelli e poco socializzati: basti pensare alla testata Il Monello dove campeggiava un ricciuto e ciuffato ragazzino dallo sguardo assai birichino, ed a personaggi come Accio, Superbone e Narciso Putiferio, contrapposti al bravo bambino Cuoricino, dotato di un taglio molto composto.
Richetto dal ciuffo e Ciuffettino
Ma il ciuffo ha anche ascendenze fiabesche, che lo collegano non solo al mondo dell’avventura ribelle, ma anche a quello della magia. In qualità di attributo magico, infatti, lo troviamo in diverse favole tra cui le più significative sono certamente due: Enrichetto dal ciuffo e Ciuffettino.
Riquet à la houppe (Enrichetto dal ciuffo) è il titolo di una fiaba popolare francese, resa celebre dalla versione di Charles Perrault del 1697. La storia è quella legata al magico potere del ragazzo col ciuffo di «regalare lo spirito» a chi gli garbava. In particolare Enrichetto sceglie come oggetto del suo potere una bella principessa totalmente stupida alla quale però, in cambio dell’amore incondizionato, concederà il suo dono. La bella, infatti, lo incontra in un bosco dove si era ritirata a piangere sulla sua assoluta mancanza di spirito. «Se non è che questo, signorina, io posso facilmente far cessare le vostre pene. – E come farete? esclamò la principessa. – Io ho il potere, signorina, disse Richetto dal ciuffo, di dare tutto lo spirito possibile e immaginabile alla persona da me amata; e poiché questa persona siete proprio voi, signorina, da voi solo dipende aver quanto spirito volete, purché acconsentiate a sposarmi». La favola, naturalmente, dopo varie peripezie, ha un lieto fine: la principessa dotata di spirito si ricorda, mercé il dono magicamente ricevuto, di poter rendere bello chiunque avesse amato, e dato che Enrichetto era brutto assai, ecco la mutua trasformazione: lei spiritosa ed intelligente, lui bello ed aitante. Qui il ciuffo è indicato, dalla nascita di Enrichetto, come il contenitore stesso del suo potere trasformativo, un vero e proprio dispositivo dello spirito, caratteristica che tornerà, come vedremo tra poco, negli studi di Giorgio Agamben sul Genius.
Anche Ciuffettino è molto significativo del potere magico insito nel ciuffo. Il protagonista di questo racconto è un personaggio il cui fortunato esordio risale al 1902, nell’omonimo libroscritto e illustrato da Yambo, al secolo Enrico Novelli (Pisa, 5 giugno 1876 – Firenze, 29 dicembre 1943). Ecco come il piccolo Ciuffettino viene presentato: «Un bambinetto alto quanto… eh no, il solito soldo di cacio non lo dico, neanche se mi bastonano. Mettiamo tanto per cambiare, alto come una pianta di basilico. La faccia sarebbe stata passabile, anzi, piuttosto carina, se lui l’avesse sempre tenuta pulita: ma siccome si lavava due volte la settimana per finta, così era nera e brutta come un carboncino. […] Egli portava fieramente, ritto su la fronte, un ciuffo immenso di capelli che gli dava un’aria curiosa, e lo faceva somigliare ad uno spolvera-mobili. E lui ci teneva, sapete, al suo ciuffo! Guai se qualche amico gli consigliava giudiziosamente di farselo tagliare! […] Appena Ciuffettino ebbe cinque anni, il babbo lo mandò a scuola. Bisogna premettere, a lode del nostro eroe, che era venuto su un monello di prima forza: svogliato, bugiardo, sfacciato, sporco… […] Basta: a sei anni, Ciuffettino era più asino che a cinque. A sette, peggio che mai. A otto, non ve ne parlo. A nove…». Come si vede siamo di fronte ad un epigono dell’archetipo stesso del bambino ribelle ed infingardo: Pinocchio che, come Ciuffettino, alla fine compirà la sua metamorfosi attraversando le diverse prove iniziatiche che il grande Collodi, Libero Muratore, gli fa esperire. Ora, la cosa interessante, è che le avventure di Ciuffettino, veramente fantasmagoriche, vedono nel ciuffo una specie di antenna rabdomante che lo spinge, in una atmosfera francamente onirica, insieme al fido cane che si chiama, guarda caso Melampo, a visitare popoli e paesi fantastici sino al ritorno, finalmente “maturo”, al suo paesello di origine che, chissà perché, si chiama Cocciapelata!.Significativo è che in ogni avventura c’è un dato che sempre ritorna: tutti vorrebbero tagliargli il ciuffo!
Genius
«I latini chiamavano Genius il dio a cui ciascun uomo viene affidato in tutela al momento della nascita. L’etimologia è trasparente ed è ancora visibile nella nostra lingua nella prossimità fra genio e generare. Che Genius avesse a che fare con il generare, è del resto evidente dal fatto che l’oggetto per eccellenza “geniale” era, per i latini, il letto: genialis lectus, perché in esso si compie l’atto della generazione. E sacro a Genius era il giorno della nascita, che per questo noi chiamiamo ancora genetliaco». Così Giorgio Agamben, nella raccolta di saggi brevi Profanazioni (2007), definisce le caratteristiche del Genius. Ora, ciò che a noi interessa, per concludere questo excursus sul ciuffo, è il gesto che richiama alla mente il Genius di ognuno di noi, inteso qui non solo come nume personale, ma come essenza stessa del nostro essere, ciò che ci rende unici e dunque che in qualche modo contribuisce, o forse è alla radice stessa, del nostro processo di individuazione. Senza entrare ulteriormente nei risvolti psicologici di questo processo, richiamiamo qui allora solo l’atto di toccarsi la fronte quando dobbiamo ricordarci qualcosa, o quando qualcosa che già sapevamo ci appare però nel suo significato più intimo e veritiero, sotto un’altra luce. In sintesi quando siamo in presenza di un momento di consapevolezza del nostro essere. Ecco che allora possiamo pensare che i «ragazzi col ciuffo», che in continuazione si toccano la fronte per rassettarlo, utilizzino questo espediente come continua forma di rammemorazione del loro essere, come gesto autopoietico del cammino verso la coscienza del sé. E qui il cerchio aperto dal dio Kairos sembra così chiudersi per poi immediatamente trasformarsi nella spirale delle continue trasmutazioni che ognuno di noi vive nella propria esistenza, anche mercé un ciuffo di capelli che, seppure su molte delle nostre teste non appare più come tale, resta pur sempre, come Genius nella nostra essenza più profonda.