Il gelato: dolce tipico dell’estate, delizia fredda che a contatto col calore delle labbra prima e della lingua poi, dispiega una miriade di immagini e sensazioni legate alla stagione delle vacanze, del mare, del sole, delle avventure sentimentali. Ma l’immediatezza dell’offrire, o del ricevere, un gelato richiama anche significati molto più profondi, che vanno ben oltre a quell’allusione sessuale che nella memoria di ognuno di noi rimane legata alla promessa del piacere. E allora cerchiamo, brevemente, di delineare alcuni delle ascendenze che danno al gelato, ed alle sue forme, un orizzonte di significato che dispiega i suoi rimandi simbolici e culturali.
Tra storia e leggenda
Il gelato nasce con l’umanità e dunque la sua origine si perde nella leggenda. La più antica narra di un ipotetico versetto biblico in cui Isacco, offrendo ad Abramo latte di capra misto a neve, avrebbe inventato il primo sorbetto della storia: “Mangia e bevi – dice Isacco al padre – il sole è ardente e così puoi rinfrescarti”. In realtà questo versetto non compare nel Libro sacro alle tre religioni monoteiste, ma la dice lunga sulla “sacralità” dell’ascendenza leggendaria che si vuole attribuire al gelato, ed in particolare al suo significato “salvifico”, il primo bene di conforto: siamo nel deserto ed il patriarca sta soffrendo; una sorta di manna gelata insomma. Ma, al di là della storia, o meglio prima di questa, noi sappiamo che l’esistenza di una leggenda significa la necessità di aurare il soggetto narrato; per il gelato dobbiamo allora spingerci ad esplorare certe corrispondenze che non appaiono immediatamente evidenti.
Certo è che, nell’antico Egitto, i Faraoni servivano dolci rinfrescanti composti da ghiaccio misto al succo di una frutta, quella che oggi chiareremmo una classica “grattachecca”. Le fonti tramandano che pure Alessandro Magno fosse solito consumare una «granita» di neve mista a miele e frutta. Più storicamente documentate, con tanto di ricette, sono invece le nivatae potiones, cioè le bevande ghiacciate, veri e propri dessert tipo semifreddo per intenderci, usate dai Romani nei loro banchetti. Possiamo ben immaginare Nerone che si rinfresca dal gran caldo dell’incendio di Roma con una di queste.
Ma bisogna attendere il Rinascimento che, come vedremo, col gelato ha una relazione che va ben oltre ciò che accade sulle labbra e nel palato, per assistere alla sua rinascita nell’Evo moderno. In particolare è Firenze a rivendicare la formula che per prima utilizza il latte, la panna e le uova. L’innovazione si deve all’architetto Bernardo Buontalenti, insieme ad un altro grande protagonista della storia del gelato: il palermitano Francesco Procopio dei Coltelli che, trasferitosi a Parigi alla corte del Re Sole aprì, nel 1686, il primo caffè-gelateria della storia, il tuttora famosissimo caffè Procope sito in rue de l’Ancienne Comédie.
E su questo caffè vale la pena soffermarsi un pochino, dato che la storia del gelato si intreccia qui con quella di un prodotto altrettanto basilare, se non di più: il caffè appunto. Quando Procopio, poi francesizzatosi in Procope, apre il suo esercizio rilevato da un armeno che si era trasferito a Londra, siamo a qualche anno dall’introduzione a corte del caffè, dono del sultano Maometto IV.
La trovata di Procopio fu, allora, proprio quella di miscelare la nuova bevanda, tonicizzante ed esotica, con il gelato, reinventando così, ancora una volta nella storia, il sorbetto, ma al gusto di caffè. Il locale divenne presto uno dei ritrovi preferiti della città: il menù, in italiano, comprendeva, infatti: acque gelate (la granita), fiori d’anice, fiori di cannella, frangipane, gelato al succo di limone, gelato al succo d’arancio, sorbetto di fragola. Ciò che rendeva speciale il tutto, oltre alla bontà, era l’esclusiva che Procopio aveva ottenuto tramite una patente reale con cui Luigi XIV gli aveva dato nientemeno che l’esclusiva di quei dolci.
Arriviamo così al ‘700, e troviamo Voltaire e Rousseau tra gli habitué; e forse fu qui che, sorseggiando un sorbetto al caffè, i primi complottardi repubblicani cominciarono a pensare alle rivoluzioni culturali e politiche del XVIII secolo, poiché la storia del Caffè Procope vuole che Diderot vi scrivesse alcuni articoli della celebre Encyclopédie, e che il massone Benjamin Franklin vi concepisse alcuni passaggi della futura costituzione degli Stati Uniti d’America.
Da Parigi ci spostiamo a questo punto nel Nuovo Mondo, dove l’italiano Filippo Lenzi, agli inizi del‘900,apre la prima gelateria in terra americana. Il prodotto si diffonde a tal punto da stimolare la sua produzione meccanica: nasce la sorbettiera a manovella, brevettata da tale William Le Young.Ma, almeno in Italia, patria indiscussa del gelato, dobbiamo aspettare il secondo dopoguerra per avere il primo prodotto industriale su stecco… il leggendario Mottarello al fiordilatte nato nel 1948, seguito a ruota, nei ruggenti anni ‘50, dal primo cono con cialda, il mitico – vedremo com’è appropriato questo aggettivo – Cornetto.
Dal mito al Cornetto
Ecco che arriviamo alle immancabili ascendenze mitologiche del «Cornetto» che richiama chiaramente, sia nella forma sia nell’allusione simbolica, la cornucopia, letteralmente corno dell’abbondanza, dal latino cornu, corno, e copia, abbondanza. Le versioni sulla sua nascita convergono verso il corno della capra Amaltea che venne strappato per gioco dal neonato Zeus mentre essa lo nutriva, durante la sua prima infanzia, quando doveva nascondersi dal padre Crono, divoratore dei suoi figli. Per ripagarla della dedizione Zeus trasformò il corno in cornucopia. Sempre secondo la mitologia greca, un altro corno fu perduto dal fiume Acheloo nella lotta contro Ercole per la sposa Deianira: il fiume si trasformò in toro ed il suo corno venne strappato dal semidio e poi restituitogli proprio dandogli quello della capra nutrice. Il mito è importante anche perché narra come dalle gocce di sangue cadute dalla ferita del corno estirpato nascessero le Sirene, chiamate infatti Acheloides dal nome del padre. E dunque, una parte del magico potere di seduzione del Cornetto, utilizzata nelle pubblicità che riprendono spesso i mitologemi fondamentali, deriverebbe proprio da queste ascendenze. La donna che porge il Cornetto, in altre parole, ha sempre qualcosa di sirenico, evoca un frammento del loro potere di incantamento, ben noto da Ulisse ai giorni nostri. D’altra parte, la componente maschile del Cornetto può sempre ricordare la virile presa di Ercole: anche qui, molto comune, l’immagine del ragazzo che porta il Cornetto alla ragazza, finalmente acquistato al bar, come fosse un trofeo.
L’Accademia dei Gelati e Cristina di Svezia
Esiste poi una dimensione largamente inesplorata, o perlomeno non immediatamente evidente, che riguarda la relazione tra il gelato ed il tempo. La caratteristica del gelato, infatti, il suo attributo d’essenza, è che si scioglie. L’esserci-del-gelato, il suo dasein, è dunque nel tempo, come direbbe Heidegger, e proprio questa relazione è stata utilizzata per evidenziare altre simbologie, sia erotiche, sia più squisitamente esoteriche, incardinate in una Accademia del XVI secolo dal nome alquanto evocativo: L’Accademia dei Gelati.
Nel 1588 a Bologna, viene fondata questa particolare Accademia il cui emblema, una selva di alberi congelati in un glaciale paesaggio invernale, porta come motto una frase tratta dalle Georgiche di Virgilio (Libro II verso 80), Nec Longum Tempus, cioè «non per molto tempo ancora». Chi oggi visitasse le Collezioni comunali d’arte del Palazzo d’Accursio, sede del Municipio cittadino, vedrebbe il curioso emblema raffigurato in un dipinto di Annibale Carracci. Il motto Nec Longum Tempus, alludeva allo scopo dell’Accademia, i cui membri si ripromettevano di attivarsi per dare il loro contributo affinché il metaforico bosco gelato della cultura, tornasse presto alla stagione primaverile. Non a caso il motto virgiliano si riferisce proprio a questo.
Una peculiarità dei Gelati era anche quella per cui i suoi aderenti avevano un soprannome ed un emblema personale, che doveva essere in tema con il nome dell’Accademia. I Gelati di Bologna adottarono dunque soprannomi ed emblemi sin dalle prime pubblicazioni, si vedano le Ricreazioni amorose, in cui si cimentarono in poesie erotiche firmandosi col nome accademico: Faunio, Tenebroso, Immaturo, Pronto, Intento, Caliginoso. Queste rime rispecchiano l’atmosfera neoplatonica rinascimentale, in cui l’amore è la via che conduce alla Verità e la donna è la guida.
Sempre al passo con i tempi, fedele al suo motto, l’Accademia dei Gelati assume, nella seconda metà del Seicento, interessi più enciclopedici, che vanno dalla linguistica alla musica, dall’etica politica all’astronomia, ma anche all’esoterismo e alle nascenti sensibilità massoniche. E proprio il saggio sull’astronomia dell’accademico Geminiano Montanari, Sulla sparizione di alcune stelle ed altre novità celesti, attirò l’attenzione della Royal Society di Londra, che nelle sue Philosophical Transactions del 1672 dedicò una recensione alla pubblicazione lodando il saggio del Montanari.
Ora, come non ricordare che la Royal Society era stata fondata da un gruppo eminente di Freemasons, basti citare, tra gli altri, due nomi: il pastore anglicano J. T. Desaguliers, che diventerà il primo Gran Maestro della Massoneria speculativa inglese dopo la sua fondazione nel 1717, e lo stesso Isaac Newton, il padre della teoria della gravitazione universale, non solo fisico e matematico ma ermetista eminente?
Ed è in questi stessi anni che l’Accademia dei Gelati entra in contatto con una donna per molti versi eccezionale, che darà alla cultura esoterica del ‘600, il secolo ermetico-rosacrociano per eccellenza – la Fama Fraternitatis Rosae Crucis è infatti del 1652 – un sostegno ed un impulso fondamentali: Cristina di Svezia.
La sovrana aveva abdicato al trono nel 1654 per via della sua adesione al cattolicesimo; decise così di lasciare la natia Svezia e di scendere in Italia, precisamente a Roma, dove arrivò per tappe.
Scrive infatti nelle sue Memorie: “A piccole tappe io visitai Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, città suddite della Santa Sede”, ed aggiunge, evidentemente lusingata: “Non vi fu antica divinità che non venisse a me paragonata”. A Fano, Cristina conosce il Marchese Santinelli, noto ermetista ed autore di libri sull’argomento, già allora fondamentali: basti pensare che una sua ode alchemica venne ritrovata nei manoscritti esoterici di Newton solo qualche decennio fa.
Ed ecco che, arrivata a Bologna, nel novembre del 1655, riceve in omaggio e dedica da G. D. Cassini, il suo studio sulla meridiana a camera oscura, ancor oggi splendidamente in funzione all’interno della chiesa di San Petronio. Ma perché questo interesse particolare per il giovane astronomo che faceva, ovviamente, parte dell’Accademia dei Gelati? In quel periodo Cristina leggeva il De Misteriis Aegyptorum di Giamblico, e fu forse attratta dall’originale e criptata dedica che sovrasta il frontespizio “Magnum Uraniae Tesaurum” che nasconde l’acronimo M.U.T. Ora MUT è la Grande Dea dell’Antico Egitto protettrice dei cieli e delle madri; una dedica fortemente encomiastica, soprattutto perché la regina ne colse un aspetto nascosto ai più. Quello che aveva infatti intrigato Cristina – e che è stato ben evidenziato da Anna Maria Partini nel suo libro Cristina di Svezia ed il suo cenacolo alchemico, citando Giustino Languasco – è l’originalissima suddivisione spaziale delle parole sul frontespizio, a prima vista del tutto casuale e stranamente frammentata. Ebbene, a tracciare i contorni delle parole, emerge chiaramente il disegno di un potente simbolo egizio: il Dijed, che sicuramente non tutti potevano individuare dietro l’occultamento del calligramma, e che serviva a segnalare a Cristina l’appartenenza di G. D. Cassini alla corrente occulta e risorgente dell’antica sapienza egizia.
Apriamo qui una breve parentesi sulla personalità, diciamo focosa, delle regina: chi ancora oggi guardasse le porte bronzee di Villa Medici, al Pincio, dopo Trinità dei Monti, vedrebbe una vistosa ammaccatura. Se poi si voltasse incontrerebbe con lo sguardo una fontana sormontata da una palla. Ebbene, si dice, sia la stessa palla che Cristina sparò da un cannone verso la Villa, da Castel Sant’Angelo, per vendicarsi di un appuntamento galante mancato… con un cardinale.
Ora, tornando alla religione degli antichi Egizi, bisogna dire che Zed (o Dijed), viene tradotto come “stabilità”, corrispondente dell’ebraico Jachin, che insieme a Boaz erano biblicamente i nomi delle due colonne del tempio di Salomone, e che oggi ritroviamo in tutti i templi latomistici. Il Dijed è la rappresentazione della spina dorsale del dio Osiride, sposo di Iside, sovrano dell’Oltretomba. Per gli Egizi, come per le filosofie e pratiche yoga, la spina dorsale è sede e canale dell’energia vitale, del Prana, e simboleggia dunque la stabilità della vita che si rinnova. Il geroglifico multicolore che lo rappresenta somiglia a un pilastro, ma anche ad un bel cono gelato con molte palline sovrapposte dai gusti differenti!
E qui chiudiamo allora il cerchio tra il nostro Cornetto, o Mottarello, e le sue ascendenze simboliche, ricordando che il Djed rappresenta anche l’axis mundi che compare, non a caso, anche nello stemma dell’Accademia dei Gelati. E dunque, mentre gustiamo il nostro gelato, che si sta immancabilmente sciogliendo, simbolo della vita che bisogna cogliere e godere nella sua immediatezza, rammentiamoci anche che stiamo tenendo in mano l’asse del mondo, il simbolo della nostra stessa presenza nell’infinito fluire dell’esistenza.
Raffaele K Salinari