Venti di guerra in Siria da Il Manifesto 29-8-2013

Si prepara, inesorabilmente, un altra «guerra umanitaria», come se i morti ammazzati dai gas nervini, chiunque li abbia utilizzati, siano più pesanti di quelli morti per piombo. Quella dei gas è una lunga storia che riemerge ciclicamente nella storia delle guerre a partire dalla Grande Guerra e dall’avventura coloniale italiana nel Corno d’Africa, sino allo sterminio dei curdi da parte di Saddam Hussein, via via sino alle varie testate chimiche attribuite a quest’ultimo quando l’occidente decise di riprendersi i pozzi petroliferi. Quando gli americani bombardavano il Viet-Nam col fattore orange però nessuno pensò di invadere gli USA. I gas rientrano nel novero delle armi non convenzionali, cioè quelle che non lasciano tracce evidenti sui corpi; anche quelle al fosforo e molti altri ordigni testati dall’esercito israeliano nelle varie operazioni in terra medio orientale rispondono a questa definizione, anche se nessun governo occidentale ne ha mai fatto un problema di diritti umani. Il fatto è che i gas sono volatili, dunque è difficile attribuirne l’uso, ma anche determinare con sicurezza di che prodotto si tratta. Un’arma vigliacca dunque, più delle altre che, come quelle batteriologiche, serve al duplice scopo di uccidere e non lasciare tracce. Fatto sta che, sulla base delle opposte interpretazioni, tutte plausibili in guerra dove la verità viene trasformata in propaganda, si prepara un intervento militare, foriero di gravissime conseguenze locali ed internazionali, dato lo scacchiere attuale. Non torniamo qui su queste implicazioni, perché sono già state ampliamente analizzate: il ruolo della Russia, della Cina e dell’Iran da una parte, e la Turchia, Israele, USA, Francia e Inghilterra, con i loro alleati arabi, dall’altra. Questa frattura, anche in seno all’Europa, in cui l’Italia sembra tenere la posizione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza al fine di mettere a disposizione le basi militari, diviene devastante se inserita all’interno dell’attuale dibattito sulla grande cornice Post 2015, cioè sul nuovo piano di aiuti internazionali che prenderà il posto degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDGs in inglese) che scadranno appunto tra due anni. Il panel di esperi che ha consegnato a giugno di quest’anno al Segretario Generale dell’ONU il suo «Rapporto per una Partnership Globale, al fine di eradicare la povertà e trasformare le economie attraverso uno sviluppo sostenibile», pone l’accento su tema delle pace e della sicurezza come precondizione per ripensare il concetto di sviluppo in chiave ecocompatibile e ridistribuire così le opportunità a chi si vede privato oggi del diritto dei diritti: quello alla vita stessa. Nulla di radicalmente nuovo naturalmente, ma il fatto è che tra i tre co-presidenti di questo gruppo di alto profilo compare anche David Cameron, Primo Ministro britannico attualmente impegnato a spingere l’alleato USA ad una azione che di «partnership globale per la pace» non ha proprio nulla. Altra contraddizione, le risorse. Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, che comprendevano l’accesso all’istruzione, alla sanità di base, all’equità di genere, e via enumerando, dovevano essere sostenuti da adeguate somme di investimenti, per la precisione il mitico 0,7% del PIL da parte dei paesi ricchi. Il Rapporto riconosce il fallimento degli MDGs, tranne miglioramenti rispetto al numero di persone in povertà assoluta, che sono globalmente diminuite. I progressi sono dovuti però ai passi avanti compiuti da quei paesi che hanno scelto di investire sul sociale, come alcune democrazie latino americane ed il balzo in avanti cinese ed indiano, e non certo ai fondi reali destinati a questi impegni da parte dei donatori che, in complesso, non hanno mai superato la soglia dello 0,3%. Ora, è evidente lo scarto tra le cifre destinate alla armi e quelle per la salute, l’istruzione, la protezione dell’ambiente e così via. Adesso, nel pieno del dibattito ONU, che dovrebbe a breve riconfigurare il quadro delle nuove priorità sino al 2030 fondi inclusi, arriva questa altra guerra, a smentire con altre priorità e mezzi ciò che sarebbe necessario affinché l’umanità nel suo complesso, potesse vivere meglio. Per questo, se fosse mantenuta, la posizione dell’Italia sulla centralità dell’ONU è al momento non solo simbolica, ma politicamente significativa. Se si dovesse chinare la testa alla realpolitik delle cannoniere, l’ipoteca sulla prossima fase delle relazioni per costruire una vera partnership globale per un nuovo modello di civiltà ecocompatibile, sarebbe soffocante sino a far nascere già morte le nuove speranze.

Raffaele K Salinari

 

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