Nell’Italia sempre più povera di idee e di danari cresce l’esclusione sociale ed aumentano la disoccupazione e l’abbandono scolastico, nel Paese delle trasformazioni istituzionali mai concluse o inconcludenti, «laboratorio politico» guardato con curiosità e sospetto dal resto dell’Europa, brilla fulgida al di là di ogni crisi, l’ammiccante stella del gioco d’azzardo. Le statistiche, dunque la punta dell’iceberg, riferite ai soli giochi on line parlano di un giro d’affari da 16 miliardi all’anno, che pone l’Italia al primo posto in Europa, e tra i primi Paesi al mondo con ben il 22% del mercato globale. Se si considera che la popolazione italiana è solo 1% di quella mondiale, l’enormità del dato nazionale salta agli occhi.
Ad una semplice comparazione l’eccezionalità italiana appare ancora più evidente: ci dice uno studio del portale Netbetcasino.it, infatti, che nel 2012 gli italiani hanno speso in slot e videopoker al computer 15 miliardi e 406 milioni, mentre i francesi «appena» 9 miliardi e 408 milioni, a fronte dei 3 miliardi inglesi, e dei «solo» 2 miliardi e 354 milioni per gli spagnoli.
Ancora più interessanti sono i dati comparativi, che mostrano la relazione tra la crescente diffusione del gioco su internet e l’aumento della povertà, dell’esclusione sociale e dell’abbandono scolastico. Ma la spiegazione di tutto questo è solo nella povertà e nell’ignoranza degli addict al gioco, sono l’esclusione sociale e la disoccupazione che confinano i singoli a rintanarsi dietro agli schermi dei video giochi nei bar di periferia o nella solitudine dei computer a casa, o possiamo vedere qualcosa che precede, include e travalica queste evidenze fattuali? In altre parole: per analizzare ed eventualmente riportare la tendenza al gioco d’azzardo entro limiti più fisiologici e meno devastanti, sia per il singolo sia per la società, bisogna spingere lo sguardo oltre l’idea semplicistica che milioni di persone, e non certo tutte emarginate o compulsive, cerchino una vincita economica facile ed immediata; cercare di capire cioè dov’è il motore originario che spinge milioni di italiani a questa vera e propria dipendenza patologica.
E allora bisogna partire dalla definizione di «gioco» per arrivare a circostanziare quella sua particolare tipologia che è appunto il gioco d’azzardo. Nel corso del pensiero umano, da Aristotele e Platone sino ai matematici ed agli statistici, passando per psicologi ed antropologi, molte sono le definizioni di «gioco»: qui ci serviremo di quella proposta da Huizinga, poi integrata da Caillois rispetto ai giochi di Alea, il gioco d’azzardo appunto.
Nel 1933, rettore dell’Università di Leida, Huizinga scelse come tema della sua prolusione I limiti del gioco e del serio nelle culture: egli voleva dare sia una definizione comprensiva ed esaustiva di «gioco», sia dimostrare l’importanza del suo ruolo nello sviluppo delle civiltà.
Huizinga definisce il gioco in questo modo: “Considerato per la forma si può dunque, riassumendo, chiamare il gioco un’azione libera, conscia di non essere presa «sul serio» e situata al di fuori della vita consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a cui in sé non è congiunto un interesse materiale, da cui non proviene vantaggio, che si compie entro un tempo e uno spazio definiti di proposito, che si svolge in un ordine secondo date regole, e suscita rapporti sociali che facilmente si circondano di mistero e accentuano, mediante travestimento, la loro diversità dal mondo solito”.
Questa brillante definizione viene ripresa da Roger Caillois che, nel suo saggio Il gioco e gli uomini, sostiene che lo spirito di gioco è essenziale alla cultura, e dunque il gioco può essere utilizzato per leggere l’evoluzione di una civiltà, analizzando quali tipologie ludiche sono «centrali», e quali «periferiche», rispetto agli usi correnti; per le prime Caillois parla di «giochi prevalenti». Qui, evidentemente, l’orizzonte culturale e antropologico del gioco si espande cosmicamente, ricomprendendo al suo interno non solo il suo utilizzo quotidiano, ma tutti quei rimandi che ancora fanno risuonare la forza mitopoietica delle attività ludiche. Ogni gioco , infatti, ha un aspetto creativo, una parte di «illusione»: parola che significa proprio «entrata in gioco» (in-lusio).
Di cosa parliamo, allora, quando analizziamo il gioco d’azzardo, quali sono i suoi ascendenti mitologici, gli archetipi che sostengono e in un certo senso ancora nobilitano anche le sue versioni degenerate di oggi? A questo proposito, confortato anche da Johan Huizinga nel suo Homo Lundens, Caillois ritiene che nell’evoluzione dei «giochi prevalenti» si possa vedere il progredire della civiltà, anzi la nascita stessa della civiltà, nella misura in cui questa consiste nel trasmutare della comunità umana dal sottostare ai capricci di un cosmo caotico ed imprevedibile, richiamato e riflesso nei giochi che egli definisce di «maschera e vertigine», ad un universo ordinato e perciò in qualche misura governabile, che poggia su un sistema di diritti e doveri regolati dall’interno del consesso sociale, in questo modo sempre meno sottoposto all’arbitrio di forze indomabili.
In sintesi, sostiene Caillois, il movimento da uno stato di natura, o meglio sottoposto ed esposto ai capricci di una natura imperscrutabile ed indominabile, ad una civilizzazione che può, entro certi limiti, dominare e regolare gli eventi, passa anche attraverso l’evoluzione dal prevalere dei giochi e dei riti legati alla «vertigine ed alla maschera», Ilinx e Mimicry li definisce l’autore – cioè «gorgo» e «travestimento» rispettivamente dall’etimologia delle parole greche e inglesi – a quelli caratterizzati dall’Agon e dall’Alea, dove quest’ultimi, dominati dal caso, Alea appunto, sono in qualche modo non solo i residui di quell’insopprimibile esigenza di trasgressione dalle regole codificate, ma anche una residuale porta di accesso all’imperscrutabile. Nelle civiltà primitive o protostoriche, prima che nascesse il pensiero che pensa se stesso, la filosofia, i giochi erano dunque legati alla ricerca della vertigine, cioè dell’estasi che consentiva di raggiungere, anche se per un solo istante, la visione, l’epopteia come viene definita nei Misteri orfici in Eleusi l’incontro con la Grande Madre, della Potnia che allora governava le sorti dei tutto il creato. La visione dell’oggetto bramato avveniva dunque sull’orlo dell’imperscrutabile, e per questo veniva abbinata alla «maschera», cioè al volto stesso dell’invisibile, legata alla manifestazioni di quelle stesse potenze che dominavano, indominabili, la vita degli uomini. Con il nascere di civilizzazioni sempre più antropocentriche e patriarcali, come quella che nascerà in Grecia e che darà genesi all’Occidente, si affermano invece i giochi di Agon, da cui la nostra parola agonismo, cioè giochi con regole precise ma competitivi, e quelli legati all’Alea, dalla parola latina che indica il gioco dei dadi, la Sorte: entità impersonale ed imperscrutabile che dispensa i propri favori o torti senza che entri nel gioco nessuna caratteristica personale del giocatore, né di ordine morale, né abilità di alcun tipo. Dadi, roulette, slot machine e via enumerando, sono i giochi tipici governati dall’Alea, dall’affidamento totale del giocatore alla Fortuna. Evidentemente stiamo parlando dell’esatto opposto dell’Agon anche se, a certi livelli, e come in tutte le cose, i due opposti si intrecciano: come quando la ventura nel ricevere o meno carte buone viene potenziata o diminuita dall’abilità del giocatore. Nell’Alea per così dire “pura”, il tiro dei dadi, testa o croce, la sfida è allora quella di vincere, non tanto contro un avversario, ma contro il Destino stesso, spesso chiamato a guardare con favore il giocatore proprio perché egli si mette totalmente nelle sue mani. A questi giochi è legata, come forma degenerativa, la superstizione, cioè l’idea che il caso impersonale ed equanime possa essere influenzato in qualche modo. Da qui l’uso dei talismani, ma anche il ruolo delle carte da gioco come forma di divinazione.
Walter F. Otto dà una definizione acuta di superstizione, riprendendo il concetto di fondo che nei giochi si esprime qualcosa di sacro, e dunque che il suo carattere: “Non sta già – come insegnò il Taylor – nel serbar fede in ciò che è superato, e nonostante che le premesse di tali credenze abbiano cessato d’esser vitali, bensì nell’adattare alle concezioni più meschine e nel mettere a servizio dell’egoismo, manifestazioni che un tempo erano state suscitate da un’idea grandiosa”.
Elémire Zolla, nel suo L’amante invisibile, dedica un intero capitolo al gioco d’azzardo come forma di attività originariamente sacra e divinatorio, ed in particolare descrive il rapporto tra il giocatore d’azzardo e la Dama – l’Amante invisibile dispensatrice angelica della visione divina, o megera della dannazione eterna, facce di un’unica medaglia – come perennemente evocato ai tavoli da gioco, come se il fascino femminile, l’eterno femminino, potesse incatenare anche il Destino e volgerlo a favore di chi ha i suoi favori.
Qui sfidare la sorte è, al tempo stesso, gioco mortale e massima vittoria, dato che la posta in gioco è la Gloria elargita dalla Dama; Zolla ci ricorda come l’inno vedico (X, 34,2) chiama i dadi «sorsate di soma», divini carboni ardenti dalla calda melliflua magia. In origine erano piccole conchiglie, vulve che esprimevano la sorte. Anche i giochi su tavola provengono da operazioni magiche volte a far avvenire gli eventi simboleggiati dalle mosse delle pedine o a rammemorare e ripristinare certi accadimenti primordiali. Questo mito di eterne morti e resurrezioni comprende la variante di San Giorgio che, all’infinito, trafigge il drago che, all’infinito, lo tortura e lo uccide. Forse il grande mistero del gioco d’azzardo allude all’azzeramento finale del conto dei guadagni e delle perdite.
E di tutta questa ricchezza mitica qualcosa in bisca permane. Una pallina che rotola, una carta sbattuta sul tavolo, gettano una magia non meno forte dei dadi vedici. La pallina esita, la carte resta sospesa e a chi la guarda si rizzano i capelli in testa, il sangue abbandona le gote, come in un incubo. Al tavolo da gioco il tempo si ferma o si accelera, di certo non rispetta l’orologio; come nel reame della Dama.
Zolla conclude facendoci notare come l’audacia al gioco e la gagliardia del maschio sono miticamente accoppiate, semplicemente perché la Dama dice la ventura e quindi «si porta a letto il beniamino nel copione arcaico».
Giorgio De Santillana, nel su testo Fato antico e Fato moderno, breve storia del concetto legato a questa entità imperscrutabile, parla, a questo proposito, di «dadi falsati dagli dei».
E allora il gioco d’azzardo, nelle sue manifestazioni odierne, per quanto degenerate, contiene ed alimenta ancora sia una pulsione “eversiva” rispetto all’ordine competitivo del mondo contemporaneo, sia una promessa di estasi, la visione angelicante della dama che bacia chi si gioca tutto solo per un suo sguardo. E dunque, questi aspetti profondi, storicamente determinanti, non sono affatto residuali nelle motivazioni che spingono al gioco, soprattutto quello patologico, ma, anzi, possiamo dire che rivestono un ruolo nella «macchina mitologica» liberista, che continua a suggerirli a chi gioca per vendere una promessa che mai mantenuta, ma che continua ad esercitare il suo fascino eterno. E quindi il nostro approccio al problema del gioco d’azzardo dovrebbe partire proprio da qui, dalla necessaria di liberarlo dalle sue componenti non ludiche, di lucro programmato, per rivalorizzarne così il ruolo mitopoietico, creatore, radicalmente alternativo all’ordine costituito.
Raffaele K Salinari