Governo Monti
Ministero per la cooperazione, cui prodest?
Raffaele K. Salinari
28/11/2011
All’interno del governo Monti è stato inserito il ministero senza portafoglio per la cooperazione internazionale. Una scelta certo originale, che introduce un elemento forse decisivo nel dibattito sulle forme della politica estera italiana e che, al contempo, apre diverse opportunità e interrogativi. La scelta del nuovo ministero è avvenuta dopo che la cooperazione italiana ha raggiunto uno dei momenti più bassi della sua storia, soprattutto nella sua qualità di “parte integrante della politica estera italiana”, come recita l’Articolo 1 della vigente legge 49 del 1987 sulla “Nuova disciplina della cooperazione dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo”.
Mostro a tre teste
Che significato ha la nascita di questo dicastero all’interno di un governo che di “tecnico” ha solo il fatto che non vi siano politici di professione, e che è nato per affrontare la crisi che si è abbattuta sull’Italia e sull’Eurozona? Questa posizione non era infatti mai esistita prima d’ora nei governi italiani; può dunque apparire ancor più in controtendenza questa scelta, in un quadro di razionalizzazione delle competenze ministeriali e di accorpamenti di strutture amministrative.
Per inquadrare le possibili risposte, e gli scenari conseguenti, bisogna partire dal fatto che la legge 49/87, l’unica ad oggi vigente in materia di cooperazione, colloca questa parte della politica estera italiana all’interno del ministero per gli affari esteri (Mae), e segnatamente nella direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (Dgcs). Il primo obiettivo è dunque di ridefinire i rapporti tra il nuovo ministero e quello degli affari esteri, anche tenendo conto che il nuovo responsabile della Farnesina viene dal corpo diplomatico, che esprime da sempre tutti i direttori generali del Mae, incluso quello attuale della Dgcs, il ministro Elisabetta Belloni.
Assisteremo dunque alla formalizzazione, per via “tecnica”, di una sorta di “mostro a tre teste” che realizza politiche estere e di cooperazione di “serie A”, che probabilmente continueranno ad essere gestite dal Mae (accordi multilaterali in sede europea ed Onu, rapporti con il comitato Dac dell’Ocse, processo di Parigi sull’efficacia degli aiuti, negoziazione delle iniziative di budget support e via enumerando), e le azioni di cooperazione di “serie B” in capo al nuovo ministero: i rapporti, non sempre facili, con le Ong ed i paesi poveri i, pochi, progetti a dono, qualche campagna promozionale presso il grande pubblico, e cose di questo genere? Senza dimenticare che la terza testa di questo strano animale è il ministero dell’economia e delle finanze (Mef), che controlla le risorse ed è oggi guidato direttamente dal presidente del Consiglio.
Oppure si sta delineando qualcosa di più importante, almeno in prospettiva? Dato che la coperta è molto corta, e gli stanziamenti per la cooperazione sono giunti ad un drammatico 0,1% del Pil, a fronte di un promesso 0,7% (e di un tendenziale 0,3% della media europea), viene da chiedersi: che cosa potrebbe gestire in concreto un ministero senza un suo portafoglio, senza l’accesso a fondi che non ci sono? Ha davvero senso creare un nuovo ministero solo per poche, specifiche, competenze?
Riforma de facto
La ragione politica di questa scelta va ricercata nella riforma della legge 49, nata prima della caduta del muro di Berlino e che ormai ha circa un quarto di secolo. La nascita del ministero per la cooperazione riporta infatti in auge le fondamentali domande cui si cercò di rispondere allora: di che cooperazione stiamo parlando? Quale è l’orizzonte politico delle azioni di cooperazione? Quali i soggetti? Quali le fonti di finanziamento? Quale struttura gestionale?
Veramente si può credere, se questa fosse l’intenzione, che sia possibile scorporare la cooperazione dal ministero degli esteri mantenendo intatto il dispositivo di legge? O forse la scelta è quella di porre in essere una riforma de facto, senza passare per il defatigante dibattito in Parlamento? Dato che sono circa vent’anni che i vari governi, di centro-sinistra con Prodi, e di centro-destra con Berlusconi, provano a riformare la cooperazione senza riuscirvi, forse è giunto il momento di tagliare la testa al toro ponendo il potere legislativo di fronte ad una opzione chiara.
Giusto per fare un’ipotesi: si potrebbe abbastanza facilmente trasformare un ministero senza portafoglio in una Agenzia di cooperazione, proposta a lungo contemplata nei vari progetti di legge (circa venti) sino ad ora discussi senza alcun esito. Sono questioni che di tecnico non hanno nulla, anzi.
Credibilità e risorse
Per quanto riguarda le priorità del ministero della cooperazione, in cima si trova certamente l’esigenza di rilanciare la credibilità internazionale del paese.
L’Italia è infatti letteralmente scomparsa dall’orizzonte degli impegni internazionali sugli Obiettivi di sviluppo del millennio (Msgs) con il suo risibile 0,1 % del Pil. Il primo compito del ministro sarà dunque quello di riportare il paese in Europa anche da questo punto di vista, dato che l’assenza italiana grava come un macigno sul bilancio comunitario e sul raggiungimento degli impegni da parte dell’Ue. Il ministro Andrea Riccardi sa bene, data la sua grande esperienza, che ancor prima dei nuovi impegni vanno onorati i vecchi.
L’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti aveva infatti azzerato non solo il Fondo per la cooperazione, ma anche tutti i contributi a Fondi internazionali, come quello di lotta all’Aids, tubercolosi e malaria. Per colpa dei ritardi, l’Italia non solo è stata estromessa dall’organo di governo del Fondo, ma rischia quasi di rappresentare un peso per lo sviluppo delle sue attività. Il neo dicastero per la cooperazione avrà dunque bisogno non solo di molta dedizione, ma anche di sufficienti fondi da reperire. O dovrà spendersi, almeno, per sollecitarne l’allocazione. E anche qui, la strada è obbligata.
Raffaele K. Salinari è presidente Terre des Hommes International
pubblicato su Affari Internazionali il 28-11-2011