Un racconto di Gabriel Garcia Marquez un dittatore latino americano guarda dal balcone del suo palazzo la città addormentata; sogna un immenso terremoto che distrugga le baracche dei quartieri popolari, ostili al suo regime, e di poterli poi sostituire con splendidi palazzi per ricchi benestanti, che oltretutto gli sarebbero grati poiché gli appalti per la ricostruzione li avrebbero vinti loro. Il racconto immaginario di Marquez illustra uno dei tanti rischi, reali, che corre Haiti, distrutta dal terremoto e sulla quale, gia adesso, cavalcano non solo la morte, la distruzione, le malattie e la fame, ma di altri «cavalieri dell’apocalisse» sempre in agguato e pronti a scatenare le loro tremende gesta. Durante il post Tzunami, molte popolazioni che vivevano sulla costa chiesero, a chi voleva realmente aiutarli, di poter continuare a restare sulle loro spiagge sconvolte dal maremoto anziché essere alloggiati all’interno dei luccicanti rifugi messi a disposizione dall’allora presidente magnate. Il motivo è presto detto: se se ne fossero andati, probabilmente avrebbero perso per sempre il diritto al ritorno poiché quelle spiagge sarebbero state «sviluppate» da qualche costruttore di alberghi per turisti occidentali, sempre in cerca di una stanza «vista mare». Questo è uno dei rischi che corrono i superstiti di Haiti, specie quelli che provengono da quartieri difficili, come Cité soleil, dove, prima del sisma, non entrava nemmeno l’esercito. Ma, prima ancora che si scatenino i developers, gli sviluppatori, come vengono chiamati questi soggetti, sono entrati già in azione i trafficanti di esseri umani, altra costante di queste drammatiche situazioni. Li abbiamo visti all’opera e li abbiamo combattuti in Iraq durante l’invasione americana, in Algeria durante il terremoto, in Tailandia durante il post Tzunami e nel nord del Pakistan durante l’ultimo sisma: si muovono rapidi e silenziosi, sono organizzati in squadre che fanno sparire un bambino o una bambina in pochi secondi e li nascondono all’interno del paese sinché non riescono a mandarli dove il mercato li richiede. Haiti ha una tristissima ed organizzatissima esperienza di schiavitù infantile: si chiamano restavec, derivazione del francese reste avec, cioè restati con, a significare che sono proprietà di famiglie più o meno ricche della capitale che li hanno richiesti ai trafficanti e poi ne hanno fatto i loro servitori a vita. Sono bambini e bambine di circa otto, nove anni, che subiscono le angherie di ogni schiavo e spesso, alla fine del loro «ciclo produttivo» vengono messi in strada, o perché ammalati, o perché in cinta o perché semplicemente hanno fatto qualcosa che non dovevano. Prima del sisma se ne contavano circa trecentomila; ora, le reti di trafficanti, cercano di ammassare il più alto numero di bambini possibile, per poi renderli disponibili per il lavoro schiavo o per la prostituzione che certamente sarà un grande business, come sempre quando ci sono militari in giro e operatori delle Nazioni Unite. E poi Haiti è il paradiso dei trafficanti di stupefacenti; all’interno sono decine le piste di atterraggio che servono a rifornire i piccoli aerei che trasportano la droga tra l’America latina agli USA. Impraticabili oramai gli spazi del Venezuela e della Bolivia, molti trafficanti hanno fatto di Haiti il loro stop over verso l’America del nord. Questo significa che anche loro stanno valutando che ruolo possono avere nella ricostruzione post sisma e, considerando le quantità di danaro che posseggono, le loro pressioni saranno gigantesche. Queste forze oscure, che si muove gia ora parallelamente alla farraginosa, ma oramai avviata, macchina degli aiuti internazionali, dovranno essere combattute con una efficace opera di denuncia, contrasto, e soprattutto con una trasparente gestione degli aiuti che dovranno tenere ben presenti questi scenari nell’immediato e, ancora di più, nel passaggio dall’emergenza alla ricostruzione. Per l’ampiezza della tragedia, ma anche per il fragilissimo tessuto democratico e civile di Haiti, questa operazione di soccorso e ricostruzione rappresenta dunque un vero e proprio tornante nella storia degli aiuti umanitari, e dunque una sfida per tutte le organizzazioni umanitarie indipendenti. Da come li gestiremo passerà la differenza sostanziale tra una modalità che li considera un affare solo per chi li fornisce e per alcune elite che li sfruttano o, come cercheremo di fare noi, un sostegno reale alle popolazioni che ne hanno diritto.
Apparso su Il Manifesto, 19/Gen/2010