I soldati italiani uccisi in Afganistan segnano con la loro morte il decennale della “guerra totale globale contro il terrorismo” voluta dall’amministrazione Bush, per rispondere all’attacco contro le Torri gemelle. È dunque ora di fare un bilancio di questi anni, di una vera e propria guerra che solo l’Italia continua a non riconoscere come tale e che è costata al momento almeno duemila soldati morti e forse almeno cinquantamila afgani tra guerriglieri e civili, tra i quali moltissimi bambini. Il 7 ottobre 2001 il governo USA, appoggiato dalla Coalizione Internazionale contro il terrorismo, lanciò infatti il primo di una lunga serie di attacchi aerei contro l’Afghanistan, bombardando le aree governate dai talebani e, contemporaneamente, con gli stessi aerei, lanciando razioni alimentari a sostegno delle popolazioni che fiancheggiavano l’Alleanza del Nord, antitalebana. Il Primo ministro inglese di allora, quel Tony Blair tanto ammirato da una parte della sinistra italiana come campione della terza via, dopo il fallimento di Clinton, chiarì oltre ogni dubbio che gli aiuti umanitari erano da quel momento parte integrante della strategia bellica, imprimendo così una torsione inaccettabile che, da allora, ha costretto tutte le agenzie umanitarie indipendenti, o a lasciare l’Afganistan, o a lavorate in condizioni estremamente pericolose. La denaturazione dell’aiuto umanitario in Afganistan è andata ben oltre quel teatro di guerra: ha dato il via ad una progressiva strumentalizzazione dell’aiuto umanitario a fini squisitamente bellici smantellando progressivamente i pilastri sui quali poggia: l’indipendenza, la neutralità, e il diritto all’accesso a tutti i civili in stato di necessità. Dal punto di vista politico, in questi dieci anni, va ricordato come la guerra in Afghanistan abbia trovato in Italia unanime consenso da parte di tutti i partiti – soprattutto quando erano nella maggioranza – e di tutti i governi. Vale la pena rileggere le dichiarazioni di voto in occasione dei ricorrenti finanziamenti della “missione di pace” per avere un quadro lucido delle reali indifferenze che vivono all’interno dei maggiori partiti sul tema capitale della Pace e della Guerra, e che mostrano un sostanziale disprezzo per l’articolo 11 della nostra Costituzione, salvo poi ad evocala quando si tratta di questioni inerenti ai rapporti di potere interni alla “casta”. Ma la guerra in Afganistan non è solo violazione della nostra Costituzione, è anche supina accettazione di una lunga serie di violazioni dei Diritti umani che rientrano nelle Convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro paese: quella contro la tortura, e basta pensare a Bagram, o quella sui diritti dei bambini. Due settimane or sono, alle Nazioni Unite si è svolto il Vertice sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. Il nostro paese si è presentato con un risibile 0,1 per cento del suo PIL da destinare agli impegni presi, anche questi, dieci anni or sono. Sarà banale ricordarlo ma la guerra in Afganistan costa quasi 2 milioni di euro al giorno. Su quali basi si decide allora di spendere oltre 600 milioni di euro in un anno per mantenere in Afghanistan 3300 soldati, sostenuti da 750 mezzi terrestri e 30 veicoli? E ancora, dove troveremo i fondi per aggiungere al nostro contingente altri 700 militari? Bisogna spiegare come, a fronte di una politica di tagli che colpisce i posti letto negli ospedali, mortifica la scuole ed il lavoro, respinge in mare donne e bambini che spesso vengono proprio da quei luoghi di guerra, si trovano i fondi per continuare una “guerra infinita? A fronte di una cooperazione civile che in Afganistan, come in tutto il resto del mondo, arranca faticosamente, e che non riesce ad avere soldi se non per qualche scuola, pozzo o ospedale che sia, bisogna ricordare che il Parlamento stanzia 24 miliardi di euro per la difesa nel bilancio 2010. Ora, è bene discutere delle alleanze che la sinistra dovrebbe tessere per ribaltare i rapporti di forza politici attualmente vigenti, è interessante il dibattito lanciato dal manifesto a questo proposito, e forse questa è una modalità irrituale per rispondere alle sollecitazioni di Valentino Parlato: entrare con il ricordo di chi e cosa sostiene questo anniversario di sangue per irrompere nelle felpate polemiche e nei tatticismi di partito e ricordare alle sinistre litigiose e personalizzate che è questo l’orizzonte degli eventi a cui dobbiamo far riferimento per determinare la nostra agenda politica
Raffaele K Salinari
Pubblicato su Il Manifesto, mercoledì 13 ottobre 2010