Giorno dopo giorno la tragedia di Haiti scompare dalle prime pagine dei giornali mentre lascia il posto alle sabbie mobili della polemica politica nazionale. L’onda emotiva suscitata dalle immagini ha sollevato il problema dell’adozione dei bambini haitiani e subito alcuni ministri e politici di maggioranza si sono affrettati a cavalcarla. Noi vorremmo dire una parola di chiarezza per quanti ci chiedono che fare, come, e forse anche perché farlo.
La prima constatazione riguarda la storia delle adozioni internazionali. L’Italia ha una serie di procedure che vengono ritenute tra le più avanzate del mondo in questo campo. Sono normative che hanno tratto beneficio da anni di esperienze sul terreno delle relazioni tra paesi e dalle storie di tante coppie che volevano adottare un bambino. Sino a qualche anno fa, ed ancora oggi, il problema più importante era quello di contrastare le adozioni illegali, e dunque il commercio dei corpi che, sfruttando il desiderio di amore di tante persone, lucrava su questi sentimenti mettendo in essere vere e proprie reti di traffico. Negli ultimi quindici anni il nostro Paese ha stretto relazioni con i paesi di provenienza sulla base di regole condivise e trasparenti, che cercano, oltre la contrasto del traffico illegale a fine di adozioni internazionali, di mettere al centro ciò che più conta: l’interesse superiore del bambino. Ora si vorrebbe cominciare a fare eccezioni a queste normative, scardinando una delle poche norme certe e praticabili che abbiamo; non lo accetteremo proprio nell’interesse superiore del bambino. Il Diritto internazionale, o meglio quello che ne rimane dopo Guantanamo, la guerra umanitaria del Kossovo, l’invasione dell’Iraq, è ridotto a ben poca cosa; non vorremmo che approfittando dei buoni sentimenti di tanti cittadini italiani si scardinasse anche questo tassello che sino ad ora ha retto. Ma, forse ancora più importante, nella nostra opposizione alle eccezioni che si potrebbero configurare, è l’affermazione che i bambini di Haiti sono il futuro di quella nazione e che sottraendoli al loro Paese si sottrae una parte fondante del suo futuro. Haiti è in ginocchio anche perché è sempre vissuta in uno «stato di eccezione» dove nessuna regola condivisa ha mai potuto esser praticata. Noi pensiamo che chi vuole aiutarla deve sostenere la sua comunità nazionale, che esiste ed è eccezionalmente vitale, come vediamo ogni giorno operando nell’ospedale di Las Cajes o nell’orfanotrofio di Port au Prince. E dunque bisogna organizzare l’aiuto affinché questo restituisca sovranità alla società civile di Haiti, sostenendo le attività di protezione dell’infanzia in loco, quali? Prima di tutto i progetti che organizzano ospitalità e protezione ai bambini orfani e sbandati, per non farli cadere nelle mani dei trafficanti di esseri umani che si sono gia organizzati, come abbiamo denunciato nei giorni scorsi. Al contempo appoggiare le attività che rafforzano e sostengono le comunità locali, che si stanno organizzando anche a fronte di una autorità nazionale che sembra aver consegnato l’isola alle «truppe umanitarie». Terzo dare attenzione alle attività di prevenzione e contrasto al fenomeno della schiavitù urbana, fenomeno radicata in Haiti ma che adesso si può denunciare anche mercé l’appoggio internazionale e l’interesse di tanti media a fare una corretta informazione. Ed infine avere il coraggio di fermare con l’informazione ed il buon senso che viene dall’esperienza stessa degli haitiani, l’onda delle adozioni facili, delle scorciatoie al Diritto internazionale, che una volta imboccate divengono la regola. Se il nostro Governo vuole fare delle eccezioni, allora riveda la Finanziaria e faccia un emendamento per portare la quota del PIL dedicato agli aiuti internazionali allo 0,7%, come ha promesso nel lontano duemila davanti a tutto il mondo; e poi questa non sarebbe una eccezione ma la regola che non è stata mai rispettata.
Apparso su Il Manifesto, 31/Gen/2010